Il nome del grande caposcuola bolognese che egli stesso scrive in qualche documento notarile è Wernerius. Egli però si dichiara sempre bolognese, tuttavia l’ipotesi di sue ascendenze germaniche è possibile e ciò avvalorerebbe l’idea che l’imperatore Enrico V l’avesse preso in quanto amava le persone sue connazionali, nominandolo nel 116 giudice imperiale dandogli importanti missioni politiche. Egli entrò nella scena dopo la riconciliazione del 1111 tra gli Enrici e Matilde di Canossa ed era un semplice causidicus che però incontro Matilde quando entrambi parteciparono ad un placito tenuto a Baviana. Forse già in quella data Matilde gli avrebbe chiesto di “rinnovare i libri delle leggi”. Nel 1113 tuttavia la sua fama di conoscitore e studioso di Giustiniano già era famosa. Burcardo di Ursperg spiega il contenuto della petitio di Matilde: era un invito a restituire il testo giustinianeo nella forma originaria dopo le corruzioni altomedievali, producendo nei limiti del possibile un’edizione critica. Ce ne era senza dubbio bisogno in quanto non si sapeva usando il Codice quali parti fossero originarie e quante corrotte: Matilde dimostra allora di esser attenta ai problemi filologici del diritto romano rinascente e Irnerio appare come un filologo (quindi mirava a una genuinità del testo) esperto del testo giustinianeo che non voleva ricostruire solo meccanismi giuridici e istituti: egli diventa un teorico entusiasta dei problemi testuali e soprattutto non forza l’interpretazione di un testo per adeguarlo a qualcos’altro come faceva Pepo con le Sacre Scritture. I suoi studi portarono a vedere ad esempio che l’Authenticum non era autentico in quanto lo stile di questo testo era diverso da quello che Giustiniano manifestava nel suo codice. Tuttavia allo stesso tempo non volle privare dalla sua raccolta le innovazioni portate dall’ultimo Giustiniano e tolse brevi estratti delle Novelle dell’Authenticum per sistemarli in calce alle costituzioni del Codice che ne venivano modificate chiamandole authenticae.
Scopo del lavoro irneniano. Il suo obiettivo era sempre quello di destinare tutto il lavoro alla pratica. In particolare egli si occupò nel 1116 di arte dei notai in quanto a marzo di quell’anno comparve a Padova in un placito per la prima volta giudice accanto a Enrico V.
Azioni di Irnerio. I documenti che lo riguardano coprono pochi anni della sua vita ma per quei pochi anni son 14 in un periodo compreso tra il 1118 e il 1125. Nel 1118 i documenti dicono che Enrico V spedì Irnerio a Roma a perorare l’elezione di Maurizio Burdino come Antipapa: le sue arringhe furono molto efficaci (incentrate sui temi dei poteri dell’imperatore sulla Chiesa contro le pretese gregoriane di una totale indipendenza) ma ciò fece esplodere l’ira di papa Callisto II che nel concilio dell’anno dopo di Reims scomunicò Enrico V e la sua corte, compreso Irnerio. Forse proprio per questo dal 1118 al 1125 non si ha notizia di Irnerio, che comunque morì poco dopo il 1125. Nella causa di Burdino probabilmente Irnerio usò il falsificatore cesarista di 40 anni prima parlando della lex regia. La lex regia rimarrà il caposaldo teorico delle sue visioni del potere imperiale considerandola un’alienazione totale e irrevocabile: questo è un argomento giuridico in favore del recupero dei poteri dell’Impero ed è un qualcosa che bene o male sostenevano anche i cesaristi.
Evoluzione della scuola. Irnerio nel 1112 si trovava, insegnava e magari studiava a Ravenna e si era trasferito poi a Bologna perchè lì comunque si trovava a casa. Egli ebbe 4 importanti allievi: Bulgaro, Martino, Jacopo ed Ugo che passarono alla storia come i 4 dottori per antonomasia. La scuola mentre vi erano questi importanti esponenti post Irnerio vide molte polemiche tra questi e nacquero due importanti filoni di pensiero: uno riconducibile a Bulgaro che voleva l’interpretazione rigorosa della legge scritta, l’altro riconducibile a Martino Gosia detta “gosiana” più elastica e intesa a preferire le maglie larghe dell’equità a quelle più strette della legge. L’equità era stata vista fino a quel momento come un’eccezione alla norma. Martino subì critiche da Giovanni Bassiano e Azzone, il primo discepolo di Bulgaro e il secondo discepolo del discepolo, che gli imputavano il fatto che Martino inventasse l’equità ex genio suo con l’unico obiettivo di farla comunque prevalere sulla legge. Cortese però sostiene che spesso Martino addirittura in certe glosse appare più fedele di Bulgaro alla legge, quindi questa offesa per l’autore appare eccessiva.
Visione del “mondo nuovo” della scuola gosiana. Enrico da Susa, grande cardinale e canonista del 1200, descrive Martino come un uomo spirituale disposto a seguire la legge di Dio anche sacrificando Giustiniano. Preferire l’equità alla legge tuttavia in certi momenti non voleva dire altro che applicare utrumque ius cioè l’integrazione di diritto civile e canonico già visto come idea del Diritto comune che era rifiutato dai civilisti postirneriani. Da ciò si vede che Bulgaro è il mondo nuovo la cui missione è solo quella di interpretare scientificamente i libri giustianei, Martino invece non aveva tagliato i ponti col passato e voleva procedere alla sintesi dell’utraque lex sebbene non credesse a Pepo che voleva sostituire il diritto divino al dettato delle norme romane: un giurista sensibile alla prassi (per questo vicino alle vecchie tradizioni), alle esigenze concrete e quindi all’equità.
Caso celebre di divisione tra i due. C’era un rescritto di Alessandro Severo che poneva il problema dell’efficacia da assegnare al giuramento confirmatorio di contratti annullabili: l’imperatore si dichiarava contrario allo spergiuro. La leggenda narra che si presentò un caso concreto di un minore di 25 anni che aveva alienato un bene giurando di non contravvenire mai al contratto salvo poi decidere d’invalidarlo chiedendo la restitutio in integrum (era minorenne) ma ciò non gli fu concesso dall’imperatore in quanto non voleva esser coinvolto in un caso di spergiuro. Per i glossatori il punto dolente era che il rescritto non specificava se il minorenne avesse fatto il contratto con le forme dovute cioè autorizzato dal giudice perchè altrimenti l’atto sarebbe stato nullo per vizio di forma. Si dice che Martino per dirimere a suo favore la controversia avrebbe approfittato del soggiorno bolognese del Barbarossa per fargli emanare una costituzione che mettesse fine alla contesa, la Sacramenta Puberum, che piaceva anche alla Chiesa in quanto preoccupata di evitare spergiuri che dannassero le anime. Quindi la restititutio non si poteva fare, ma ciò era caldeggiato dal Severo, quindi in realtà Martino segue comunque un’idea di legge.
Conflitto tra leggi giustiniano e Sacre Scritture. In un’ipotesi di questo scontro il principio della inviolabilità assoluta del precetto divino era convalidato dalla regola giuridica che autorità di pari livello non potevano comandare l’una all’altra per il quale motivo un inferiore (legge) non poteva imporre qualcosa a un superiore (Dio=Sacre Scritture). Il caso dolente di scontro erano le usure: Giustiniano le ammetteva in un’entità ristretta, Cristo nel Vangelo di Luca di legge che non le ammettesse assolutamente. Il concilio di Nicea aveva poi fatto una norma canonica su ciò che entrò poi nel Decreto di Graziano e quindi in dottrina canonista. La polemica tuttavia tra le due parti si acquietò anche perché Giustiniano si era dichiarato nelle Novelle disposto a seguire i sacri canoni. Un altro problema fastidioso per i glossatori è quello per cui Cristo nel Vangelo Matteo sollecita i fedeli a convertire i fratelli portandosi dietro 2 o 3 persone perchè una voce appare insufficiente, mentre nelle fonti giustinianee servono più testimoni, come ad es. 7 nei testamenti. Martino in questo senso mostra davvero equità: per il testamento necessari 7 testimoni, se ci son dubbi che non vanno oltre i requisiti formali dei testimoni bastano 2 o 3 testimoni di cui parla Cristo. Bulgaro avrebbe invece accolto incondizionatamente la voce del Vangelo da intransigente portatore della legge. Il problema di questi conflitti andò avanti anche dopo la morte di Bulgaro nel 1166 e si arrivò addirittura a chiedere un parere all’interno del consilium dei dottori bolognesi i quali sentenziarono che il precetto umano non poteva contraddire quello divino ma poteva derogarvi in singole fattispecie aventi una giusta causa.
Sistema del diritto. Il diritto divino entrava comunque solo di straforo nel quadro del sistema normativo disegnato dalle fonti romane: esso si inquadrava come formatore parziale del diritto naturale (che in realtà appariva come un ricettacolo di quella equità che si dice il giurista medievale cercava, potendo risiedere in ogni ambito di Giustiniano e il giurista doveva scoprire), ma quest’ultimo per i civilisti non coincideva con la Bibbia come sostenevano Graziano e i canonisti. Sotto al diritto naturale c’era lo ius gentium (anche questo portatore di equità naturali) comune a tutta l’umanità che conteneva istituti come proprietà privata, schiavitù e contratti consensuali. Infine c’era lo ius civile che aveva aggiunto alle figure giuridiche comuni a tutta l’umanità forme positive proprie di ogni popolo.
Equità animatrice del diritto naturale. Essa appariva come una forza obiettiva insita nei rapporti e nei fatti, operando come un polo concreto antinomico all’astratto comando legislativo dello ius civile creando quindi come una dialettica tra equità e rigore. Una antica definizione di equità era quella di Cicerone: essa per lui era principio di uguaglianza che richiede parità di trattamento giuridico in presenza di fattispecie concrete. Una seconda definizione la si trova nel medioevo specie nelle Questiones dove si afferma equità come corrispondenza dell’atto giuridico con la sua causa (causa naturale, che nasce nella natura dei rapporti ed è espressione del diritto naturale) cioè con lo schema tipico della fattispecie. Quindi il legislatore ha l’importante compito di trasformare il diritto naturale in civile enucleando l’equità grezza dai fatti umani dandole forma e racchiudendo tutto in quell’atto volitivo che è la legge.
Diritto naturale e civile rimangono comunque due sfere distinte sulla vita del diritto. Ad esempio nel campo delle obbligazioni vi erano quelle naturali e quelle civili. Quindi se il soggetto compiva un atto o un negozio conformemente all’equità doveva rispettare la causa tipica di diritto naturale per far nascer l’obbligazione natura,le, mentre se tale causa era prevista dal diritto civile la causa naturale era anche civile e generava obbligazione civile. Se entrambe le cause son poste in essere e entrambi i diritti agiscono i soggetti son pienamente tutelati in quanto consegno una somma (causa naturale) e compio una stipulatio per farmela restituire. Se però manca quella naturale ma c’è quella civile si creano problemi: cioè la patologia dell’indebito in quanto la stipulatio obbliga il debitore a restituire una somma non dovuta e si dovrà ricorrere quindi ai ripari con un’exceptio doli o una condictio. Se manca invece la causa civile ci sarà solo quella naturale che consente di trattenere quanto spontaneamente versato (soluti retentio: debiti di gioco) non esercitando azione petitoria per ottenere quanto dovuto. L’equità scaturiva dal diritto naturale.