Le strutture pubbliche dei territori germanici si svilupparono nel corso del medioevo secondo linee differenti da quelle degli altri regni. Ciò si rivela già nel modo di accesso al trono: venuto meno il principio carolingio della successione ereditaria, si affermò stabilmente in Germania il principio dell’elezione. Un gruppo ristretto di grandi elettori sceglieva il successore del re, dapprima sulla base della designazione compiuta dal re stesso tra i propri discendenti, quindi anche al di fuori della famiglia del re defunto, più tardi all’interno della famiglia degli Asburgo.
L’elezione al trono comportava anche il diritto alla corona di re d’Italia e di re di Borgogna; inoltre, era al re di Germania che spettava la corona imperiale, con le conseguenze di diritto pubblico che alla carica di imperatore si collegavano.
Nel secolo XIII si formò in Germania un gruppo di grandi del regno, al quale competeva l’elezione del re. Era formato da tre principi ecclesiastici + quattro principi laici. Nella designazione dell’eletto, al criterio dell’unanimità subentrò nel corso del XIII secolo il principio maggioritario, sancito poi nella Bolla d’oro del 1356. In caso di elezione doppia o controversa al trono di Germania, il papato esercitò un ruolo arbitrale che fu proclamato da Innocenzo III nel 1202 e da Bonifacio VIII un secolo più tardi.
Anche se la nomina avveniva ormai indipendentemente da ogni intervento popolare, il potere del re nei riguardi dei sudditi non era certo illimitato. Tra gli istituti giuridici della Germania medievale, uno dei più notevoli era quello che una parte della storiografia ha qualificato «diritto di resistenza», in virtù del quale si ammetteva come legittima la disubbidienza verso il re, l’opposizione attiva nei suoi confronti e persino la sua deposizione quando egli avesse commesso atti ingiusti infrangendo con ciò il tacito patto di fiducia concluso con i propri sudditi.
Il potere monarchico trovava pertanto nell’osservanza di ciò che è giusto il suo limite, invalicabile in linea eli principio. Al momento della nomina il re di Germania prometteva di «rafforzare il diritto e porre un freno all’illegalità». Il re non era considerato la fonte del diritto, bensì soltanto uno strumento della sua affermazione.
Coadiuvavano il re una corte e una cancelleria composte in gran parte da ecclesiastici; di qui uscivano i diplomi e i privilegi riguardanti singoli personaggi, chiese e comunità.
I diplomi erano uno strumento di potere molto efficace, anche se a doppio taglio: spesso infatti comportavano la concessione di diritti di cui il sovrano si spogliava a vantaggio di altri, in corrispettivo di appoggi politici o servizi non sempre esplicitati.
Per talune decisioni si riuniva, a scadenze non regolari, un’assemblea di grandi del regno che deliberava su questioni militari, tributarie e di politica generale del regno.
Al re spettavano le regalie (iura regalia), che consistevano in una serie variegata di diritti e di poteri: dalla giurisdizione (iurisdictio) ai diritti di battere moneta, di aprire un mercato, di esigere dazi e pedaggi, sino ai diritti sulle vie di comunicazione, sui corsi d’acqua, sulla caccia, sulle miniere, sul sale.Amplissimo era dunque il raggio delle attribuzioni regie, quale risultava sia dai testi normativi che dall’elaborazione teorica dei giuristi.
Il re era il primo titolare della giurisdizione, e come tale poteva esercitare direttamente la giustizia in ogni parte del suo regno. Un tribunale supremo da lui presieduto poteva tra l’altro avocare ogni specie di causa, e giudicare in appello. In tali compiti il re fu gradualmente sostituito dal conte palatino quale vicario del re. Questa situazione, caratteristica del XIII secolo, venne a modificarsi più tardi, allorché si moltiplicarono i privilegi richiesti al re dai principi territoriali allo scopo di evitare la soggezione alla giustizia (e dunque all’autorità) regia, sino alla soppressione dello ius evocandi alla fine del Trecento.
Nel suo normale esercizio, tuttavia, la giustizia gestita direttamente da altre magistrature. Titolare della giustizia ordinaria civile e penale rimase a lungo il conte, secondo il modello che l’età carolingia aveva largamente diffuso.
Era il re che nominava i conti, anche se la diffusione del modello feudale comportò, già prima dell’età ottoniana, la trasmissibilità ereditaria della carica comitale. Solo in taluni ducati, quali la Sassonia e la Baviera, i conti erano nominati dal duca anziché dal re. Al conte il potere di giudicare derivava dal conferimento del bando, una fondamentale prerogativa che rimase nelle mani del re sino al secolo XIII e che costituì un elemento centrale del potere regio. Anch’esso tuttavia si venne sgretolando allorché la nomina dei conti cominciò a sfuggire al controllo del sovrano.
Il regno di Germania era diviso in ducati di diversa dimensione e potenza. Sino al XII secolo la struttura del ducato costituì una struttura di stirpe, fondata sulle diverse etnie. Soltanto nell’età sveva una politica deliberatamente perseguita operò il passaggio ad una forma diversa di potere ducale, fondata sul territorio.
In conseguenza di tale evoluzione, l’autorità del duca si estese ormai al territorio e non più soltanto alla stirpe che aveva dato il nome al ducato. Taluni ducati vennero frazionati, altri invece già nacquero non sulla base di una stirpe ma di un territorio, come l’Austria e la Westfalia.
In Germania lo strumento feudale giocò a favore dell’autonomia dei vassalli. Quando un feudo rimaneva senza titolare, il sovrano germanico era tenuto, quanto meno in una serie di casi, a riattribuirlo ad un nuovo vassallo entro un anno e un giorno senza la possibilità di recuperare il feudo stesso a vantaggio della corona.