L’espressione “emergenza educativa”, come sostenuto anche da Benedetto XVI, segnala uno dei problemi più gravi della nostra società;
un problema che va ben oltre la crisi dell’istituzione familiare o del sistema scolastico. Ciò che è in gioco è il senso stesso dell’uomo e delle relazioni che lo costituiscono. L’idea che ognuno di noi nasce in un mondo col quale deve imparare a familiarizzare; che questa familiarizzazione ha bisogno dell’amore dei genitori, dell’impegno degli insegnanti e dell’intera comunità; che sono proprio le persone che hanno potuto sperimentare relazioni “educative” soddisfacenti ad avere maggiori probabilità di sfruttare a pieno le grandi opportunità del momento storico che stiamo attraversando: tutto ciò costituisce una sorta di evidenza elementare che però abbiamo come rimosso. Parlare di “emergenza educativa” significa pertanto sollecitare una riflessione e una pratica che aiutino a riappropriarci di alcuni presupposti antropologici fondamentali, senza i quali è difficile immaginare una vita individuale e sociale che soddisfi davvero i nostri desideri di libertà e di felicità.
Nella nostra cultura intelligenza e affettività sono divise, e le scienze e la tecnologia facilitano l’opposizione tra ciò che è razionale e tutto ciò che per contraccolpo non lo è, e che viene classificato semplicemente come a-razionale. La razionalità e concepita come un freddo potere analitico e organizzatore, mentre l’affettività è avvertita come una relazione calda con gli altri e con il mondo, ma al di fuori della ragione. Ciò rende l’intelligenza disinteressata all’esperienza vissuta e il vissuto affettivo si riduce alla reattività emozionale, estranea alla vita dell’intelligenza, e perciò incontrollata è sempre più povera di valore simbolico. Per questo il contesto culturale pregiudica la possibilità stessa dell’educazione, cioè l’unità del soggetto sin dalla nascita. Basti pensare che un primo modello generale punta sulla divaricazione tra educazione e formazione; mentre un modello educativo opposto valorizza la spontaneità, contrastando l’idea di educazione come trasmissione di modi di comportamento, di valori e di tradizioni.
Entrambi questi orientamenti producono la separazione dell’oggettivismo razionale e del soggettivismo emotivo che riducono l’identità del soggetto e l’importanza del suo cammino educativo. La società di oggi è pertanto in crisi e ciò si riflette sulla fragilità dei valori che, anche se idealmente riconosciuti, sono sprovvisti di un significato concreto e dunque incapaci a promuovere l’esperienza. Se è vero infatti che la capacità di fare esperienza è originaria del soggetto umano, essa deve anche essere attivata da altra esperienza: il bambino impara a vivere dal genitore, il piccolo impara dal grande e l’amico dalla compagnia dell’amico. Ciò presuppone la necessità di una relazione accogliente in cui si è accompagnati e attivati sia nella vita affettiva relazionale sia nella vita intellettuale, come capacità di ascolto e di comprensione, di interpretazione e di giudizio. Questa è la interpretativa della relazione educativa, indispensabili alla maturazione dell’identità umana.
Poiché nessuno è all’origine di se stesso, non può diventare adulto da solo, ma solo attraverso relazioni qualificate: il dolo iniziale della vita ha bisogno di essere affidato a chi sia in grado di accoglierlo e di farlo crescere. L’educazione dunque ha a che fare con la nascita dell’uomo e con i suoi primi e più semplici interrogativi. La cultura postmoderna ama rappresentare l’esistenza con la metafora del gioco, inteso come gratuità dell’accadere sgravato da responsabilità ed a scopi, perché senza fondamento e senza direzione, insegnando non dove si è diretti ma solo a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte. Ma il fatto stesso che si nasce bisognosi di accoglienza e di affidamento o ci fa comprendere che il nascere è direzionato verso il senso dell’esistenza.
Educare, cioè creare un soggetto dotato di una consistenza interiore e di una capacità relazionale, presuppone che vi sia qualcuno da generare, mentre avvalorare il baluardo della cultura postmoderna “sii ciò che sei” significa intraprendere un’iniziativa educativa in senso drasticamente ridotto. Infatti l’educazione completa è un complesso esercizio di umanità, una relazione possibile solo tra soggetti che si riconoscono in qualche modo impegnati in questioni morali in cui è in gioco il divenire se stessi da uomini liberi. Una crescita armonica dell’identità personale nelle sue pieghe affettive, intellettuali e spirituali non può che intrecciarsi con la propria specifica configurazione sessuale, che non deve mai essere esasperata né oggettivizzata al massimo contrapponendo, e non coordinando, il maschio e la femmina.
Educare dunque non vuol dire produrre qualcosa in qualcuno, ma agire per attivare la capacità di azione degli altri. Insegna è un esempio significativo dell’intero processo educativo: nessuno può imparare tutto da sé, ma nemmeno il sapere può essere semplicemente trasferito da una persona all’altra; esso deve essere dunque “insegnato”, in modo da far-segno all’intelligenza di chi apprende. Analogamente l’educatore ha il compito di suscitare un’attività che l’educando non può apprendere da solo ma che nemmeno è l’educatore a svolgere. L’educazione deve essere una educazione “dell’intelligenza”, cioè un riconoscimento dell’ampiezza della ragione e della sua apertura alla verità e al senso del sapere (come sostenuto da Benedetto XVI). L’educazione deve essere anche un’educazione al desiderio, cioè che risvegli il bene umano nella sua pienezza, ed un’educazione all’affettività, cioè alla capacità di instaurare legami e di essere generosa e ricambiata. Infine occorre educare alla libertà, come autodeterminazione e come attitudine alla socialità e al coordinamento con la libertà degli altri.
L’educazione presuppone una simmetrica forma di autorità, che non deve essere intesa in senso negativo, ma piuttosto come autorevolezza, cioè quelle superiorità benefica riconosciuta che ha la funzione di far uscire ciascuno dalla sua limitata esperienza per renderlo consapevole di sé, attraverso la funzione indispensabile della tradizione del passato che vive nel presente.