L’istituto del trust prevedeva che un soggetto affidasse ad un altro un patrimonio, che gli veniva intestato perché fosse amministrato a beneficio di terzi, i quali potevano essere anche legati da vincolo di coniugio o di parentela con il fondatore. Attualmente l’attenzione per questo istituto si è rinnovata, perché sono state messe in luce le potenzialità che il trust consente di mettere a frutto in materia successoria, nella destinazione di patrimoni e nell’amministrazione di beni appartenenti a soggetti che non possono o non intendono occuparsene.
La discussione sull’utilizzabilità delle norme della Convenzione dell’Aja come se fossero norme di diritto sostanziale è ancora aperta, e parte della dottrina ritiene che la Convenzione consenta di applicare la legge straniera anche ad un trust costituito in Italia da cittadini italiani, sebbene nel nostro ordinamento non vi sia una disciplina ad hoc dell’istituto. Il problema dell’ammissibilità del trust nel nostro ordinamento è dato dal fatto che esso presuppone uno sdoppiamento delle facoltà del proprietario, in quanto il trustee, pur essendo formalmente il titolare dei beni oggetto del trust, non ne può disporre liberamente. Di più, il trustee assume i poteri tipicamente affidati al gestore, pertanto la causa del trasferimento dei beni sarebbe atipica, e un negozio di questo tipo andrebbe a creare un diritto reale innominato, conseguenza che contrasta con il principio della tipicità dei diritti reali.
Nonostante questo, tuttavia, la giurisprudenza più recente, percorrendo diversi itinerari, tende a riconoscere cittadinanza al trust anche nel nostro ordinamento.