L’art. 1366 stabilisce che il contratto deve essere interpretato secondo buona fede; in altra norma recita che il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375). Il principio di buona fede è anche una regola aurea delle obbligazioni, giacché il debitore e il creditore debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175). Alla buona fede danno spazio i Principi del diritto contrattuale europeo, che così stabiliscono: “Ogni parte è tenuta ad agire in conformità della buona fede e della correttezza; le parti non possono escludere tale obbligo o limitarlo.” La nozione di equità ricorre sovente in numerose norme del codice, con riferimento al contratto l’art. 1374 dispone che “Il contratto obbliga le parti non solo a quanto e nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità.” Sia la nozione di buona fede che quella di equità richiamano concetti, o meglio clausole, definite generali, nel senso che esse descrivono comportamenti che potranno essere successivamente determinati ad opera del giudice quando ad es. dovrà stabilire che cosa è da intendersi per comportamento conforme a correttezza o buona fede. È da riconoscere che il principio di buona fede e correttezza è destinato ad esercitare un funzione integrativa del contratto al di là di quanto le parti hanno convenuto o anche come limite a comportamenti definiti scorretti.
Non è un caso che il principio di buona fede sia richiamato per la fase esecutiva del contratto, in occasione della quale proprio comportamenti scorretti possono provocare grave pregiudizio all’altra parte. Il principio di buona fede consente di imporre alle parti doveri di comportamento al di là di quelli previsti dal contratto o derivanti dalla legge o dagli usi. Questi doveri sono finalizzati all’esigenza di salvaguardare l’utilità della controparte. Ma la buona fede può anche operare come limite interno di ogni situazione soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita al fine di prevenire facili abusi. Il ruolo dell’equità si caratterizza diversamente, anch’essa opera in via integrativa ma interviene solo in via sussidiaria e suppletiva, ove le parti o la legge non abbiano disposto al riguardo. Ciò che sembra escluso è che ad es. il giudice possa correggere il contratto e/o temperarne gli effetti per ragioni equitative, così da adeguarlo alle circostanze del caso concreto.
Questa funzione è oggi svolta dal principio di buona fede e non più dall’equità. Volendo fare un es. dell’applicazione dell’equità integrativa, può menzionarsi il caso delle assenze del lavoratore per malattia che giustificano il recesso del datore di lavoro ove superino un certo periodo. Si è ritenuto che ove il contratto collettivo non disponga nulla circa la durata di tale rapporto, dovrà il giudice in base all’equità determinarne la misura. Egli potrà ad es. ridurre equamente una penale eccessivamente onerosa per la parte inadempiente o l’indennità che il venditore può tenere nel caso di risoluzione di una vendita con riserva di proprietà. In tal caso potrebbe ancora definirsi l’equità come la giustizia del caso concreto.