Dunque l’espressione “diritto all’oblio” non è recente: è soltanto negli ultimi vent’anni però che tale concetto è entrato al centro di un dibattito che ha coinvolto dottrina giuridica, legislatori e giurisprudenza, sia a livello statale che a livello sovranazionale.

Questo nuovo diritto all’oblio soltanto in parte ha a che vedere con quello rivendicato dall’amante di Landru: il problema oggi non è più quello della “ripubblicazione” di una notizia, ma è la permanenza in rete di una notizia che può essere “indicizzata” in modo da scavalcare notizie più aggiornate. Quando facciamo una ricerca su Google infatti i risultati non seguono un ordine cronologico, bensì un ordine di “rilevanza” legato ad una serie complessa di fattori.

Sul piano della ricostruzione teoria il “diritto all’oblio” è connesso tanto alla riservatezza quando al diritto di identità personale: la diretta riconducibilità del “diritto all’oblio” alla tutela della riservatezza debe essere riformulata sulla base della considerazione che oggetto di tale diritto sono avvenimento che, nel momento in cui si sono verificati, per   loro stessa natura non rientravano nella sfera dalla privacy.

Se il “diritto all’oblio” è stato chiaramente collegato dalla giurisprudenza al diritto alla riservatezza e al diritto all’identità personale, altrettanto chiaro è che il suo riconoscimento comporta una tensione tra i principi sanciti dall’articolo 2 e 21 della Costituzione.

Ciò che è realmente decisivo è chi oggi possa e debba operare un simile bilanciamento: c’è stato un tempo in cui l’arbitro necessario ed esclusivo dei conflitti tra principi costituzionali era lo Stato ma esso, oggi, mostra un atteggiamento rinunciatario o remissivo nei confronti dei protagonisti del mondo digitale. In questa ottica la riservatezza e l’identità personale sono lasciate nelle mani di attori che sfuggono alla disposizioni nazionali o sovranazionali che tali diritti dovrebbero tutelare.

In Italia, a partire dall’ultimo scorcio del secolo scorso, la giurisprudenza ha riconosciuto   il giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta a danni ulteriori che arriva al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata.

La prima sentenza italiana a riconoscere espressamente il diritto all’oblio può essere considerata la pronuncia del Tribunale di Roma del 15 maggio 1995.

Un importante quotidiano aveva riproposto, per fini promozionali, la prima pagine dell’edizione del 6 dicembre 1961, su cui era per visibile la notizia della confessione di un omicidio, corredata delle generalità e della foto del reo.

Quest’ultimo lamentò che la riproposizione di quella vicenda, risalente ormai a più di trent’anni prima, lo esponeva a gravissime ripercussioni sul piano sociale e lavorativo, non dando conto che l’eccellente tenuta durante l’esecuzione della pena gli era valsa la grazia del presidente della repubblica.

La corte ravvisò gli estremi dell’abuso del diritto di cronaca, condannando l’editore del quotidiano al risarcimento del danno inferto: la corte ritenne illegittima la ripubblicazione per assenza dell’utilità sociale dell’informazione.

Ed eccoci al dilemma già accennato: il bilanciamento tra principi di pari rango costituzionale. Si tratta di un problema estremamente complesso: basti pensare al requisito che la giurisprudenza considera indispensabile per legittimare la pretesa di invocare l’oblio e cioè il decorso di un adeguato lasso di tempo dalla prima pubblicazione della notizia, non essendo semplice individuare dei parametri che indichino con certezza quando lungo debba essere questo tempo.

E non basta: qualora tale requisito venga accertato è comunque necessario che la notizia oggetto di ripubblicazione non condizioni l’esercizio del diritto di cronaca in riferimento ad un fatto attuale, oppure non limiti il diritto di condurre indagini di rilevante interesse storico, mortificando altrimenti “l’utilità sociale dell’informazione”. Nello stesso tempo, la giurisprudenza si è dovuta misurare con l’eventualità che un fatto, pur ormai lontano nel tempo, possa essere legittimamente considerato oggetto di un “nuovo interesse pubblico all’informazione”.

A complicare ulteriormente le cose è intervenuta, negli ultimi vent’anni, la diffusione della rete: se da una parte essa ha reso possibile una diffusione capillare e rapidissima delle informazioni, dall’altra ha favorito il “galleggiamento” nel web di notizie poco accurate e non aggiornate. In questa prospettiva, è interessante ricordare un intervento della Suprema Corte.

Un politico, arrestato nel 1993 per corruzione, lamenta che una query sui motori di ricerca

con il proprio nome e cognome restituisce, come primo risultato, la notizia del suo arresto senza alcun riferimento al successivo proscioglimento: propone così ricorso al Garante per la protezione dei dati personali chiedendo la cancellazione dei dati. Il ricorso non viene accolto poiché da una parte non era trascorso un lasso di tempo sufficiente ad affievolire l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia e dall’altra parte, la possibilità di reperire notizie compete e aggiornate sulla vicenda era garantita e dunque sufficiente a tutelare il ricorrente.

La decisione del Garante viene ribaltata con la pronuncia della Cassazione: essa ha stabilito che una notizia vera, se non viene aggiornata, risulta parziale ed inesatta e dunque non vera. Così stando le cose, l’interessato non potrà chiedere la rettifica (come potrebbe fare invece in caso di diffamazione) ma potrà invocare il diritto all’aggiornamento della notizia: solo in virtù di questa opera di contestualizzazione la notizia può essere considerata vera.

In questo caso l’interessato non pretende di rimanere nell’anonimato o che un fatto realmente accaduto venga dimenticato. Le notizie vengono diffuse e replicate a ritmi incontrollabili e, anche se venissero rimosse, sarebbe comunque possibile una loto successiva “ripubblicazione” da parte di utenti che ne abbiano salvato una copia offline.

L’unico risultato che sembra realistico raggiungere, allora, è quello di essere correttamente ricordato.