Si riaffaccia così l’altro aspetto della complessa esperienza rappresentata con l’espressione corrente di ordinamento, il processo cioè del mettere ordine tra le norme sulla base di un criterio ulteriore e diverso da quello che ha presieduto alla loro posizione→ a tal proposito l’argomentazione Kelseniana è rivelatrice dell’aporia intrinseca al modo geometrico di intendere l’ordinamento giuridico.
È noto che per Kelsen la norma fondamentale (Grundnorm) afferma le mere condizioni alle quali il materiale empirico può venir definito come diritto positivo, nel senso che organizza in unità una pluralità di norme sostituendo il fondamento di validità di tutte le norme appartenenti a quest’ordinamento.
Possiamo subito rilevare come il criterio dell’ordinamento delle norme, la Grundnorm insomma, non sia una norma, se per norma si intende l’imperativo di un potere sovrano (c.d. Soll-norm).
La norma fondamentale infatti non è posta ma presupposta, costituisce la priori della geometria legale; è un presupposto convenzionale.
Se tutto questo è vero, l’ordinamento giuridico costruito secondo i canoni della geometria legale, non è un sistema di norme intese quali espressione della volontà sovrana, ma un sistema di rappresentazioni convenzionali di norme, elaborata sulla base del presupposto della norma fondamentale→ ciò significa che l’ordinamento giuridico non è reale ma puramente virtuale.
Secondo Di Robilant, la teoria dell’ordinamento costituisce un tentativo di ordinare i fenomeni della realtà osservati con occhi impregnati di teoria: un tentativo cioè di ordinare i fenomeni come se costituisce la un ordinamento.
Sorge dunque il problema del rapporto tra l’ordinamento giuridico virtuale (costruito dal geometra delle leggi sulla base della norma fondamentale) e quello che Di Robilant chiama “ l’insieme dei fenomeni della realtà”, non essendo chiaro di che cosa si tratti: se nel insieme degli imperativi posti disordinatamente dal sovrano o dall’insieme dei comportamenti personali che si intrecciano nelle relazioni sociali.
Questa ambiguità deve essere chiarita: visto il carattere meramente operativo del rapporto tra ordinamento giuridico virtuale e insieme dei fenomeni della realtà, un conto è sostenere che l’ordinamento virtuale sia funzionale all’insieme degli imperativi del sovrano e quindi che sia strumentale all’assoggettamento dei sudditi al potere del sovrano; altro è invece sostenere che l’ordinamento giuridico virtuale sia funzionale all’organizzazione dei comportamenti individuali e specificamente al superamento del loro tumultuoso intrecciarsi, essendo mirato allo stabilimento di un ordine.
Per dirla in altro modo: un conto è considerare l’ordinamento giuridico come strumento di controllo sociale, altro è considerarlo come metodo di comunicazione civile. N.B. questo non vuol dire che tra le due eventualità non vi sia una correlazione dato che la prima può essere considerata una modalità di realizzazione della seconda; tuttavia non si può sostenere che il giusto ordine sia perseguibile solo mediante l’esercizio del potere da parte del più forte.
Di qui il problema dello scarto tra ordinamento giuridico virtuale e realtà sociale /comunità politica.
Tarello ha evidenziato il fatto che il processo dell’ordinamento è strutturale rispetto ad obiettivi esterni al processo stesso, obiettivi che lo precedono e lo condizionano→ viene dunque smascherata ogni possibilità di purezza della geometria legale.
– È inconfutabilmente vero che con la accezione di ordinamento come sistema ordinato di norme, elaborato nell’ottica geometrica, il diritto altro non è che il vestito della forza uscita vincente dal conflitto sociale. Ma è altresì vero che questo vale solo per l’ordinamento giuridico concepito sulla base dell’assunto geometrico che la legge altro non è se non il comando del più forte.
– È inconfutabilmente vero che l’ordinamento giuridico è puramente virtuale, stante il postulato della geometria legale che lo stato naturale dei rapporti individuali sia solo quello della conflittualità e del disordine. Ma è altresì vero che la pretesa di instaurare un ordine a partire da un non-ordine, risulta contraddittoria in radice a meno che non si accrediti l’uomo del potere di creare dal nulla, di trarre l’essere dal non essere.
Santi Romano muove dalla constatazione dell’inadeguatezza e dell’insufficienza della definizione di ordinamento giuridico come insieme di norme.
È vero che il diritto si presenta anche come norma e che è necessario valutarlo anche sotto questo aspetto, questo tuttavia non esclude che non possa essere messo in evidenza qualche altro aspetto del diritto: il diritto non è soltanto la norma posta dall’organizzazione sociale, ma è l’organizzazione sociale e fra le tante sue manifestazioni può neanche la norma.
Del processo di ordinamento oltre alle norme, sono fattori essenziali l’organizzazione, la forza, l’autorità, il potere→ le norme sono una parte dell’ordinamento giuridico, ma sono ben lontane dall’esaurirlo.
Per designare questo ordinamento giuridico obiettivo, Santi Romano serve è della formula dell’istituzione / corpo sociale, quale manifestazione della natura sociale e non puramente individuale dell’uomo: l’istituzione è un ordinamento giuridico, una sfera a sé, più o meno completa, di diritto obiettivo.
[Quanto all’oggettività, come connotato del dover essere giuridico, non possiamo non ricordare anche quanto aveva scritto Kelsen: egli si propone di mettere in luce i tratti che distinguono il dover essere implicito nel comando di un brigante, da dover essere implicito nel comando di un pubblico ufficiale→ per raggiungere l’obiettivo propone di distinguere il senso soggettivo del dover essere da quello oggettivo: dal punto di vista soggettivo, non esiste alcuna differenza tra l’ordine di un brigante e l’ordine di un pubblico ufficiale; una differenza si manifesta solo se si considera il senso oggettivo (che Kelsen afferma mediante la presupposizione della norma fondamentale)].
Tornando a Santi Romano e alla sua teoria dell’ordinamento giuridico come istituzione, si pone un nuovo problema e cioè quello del rapporto tra le norme giuridiche (ciò che correntemente si chiama diritto) e il complesso dell’istituzione di cui il diritto è solo una parte. La risposta che da è perentoria: “noi non crediamo che l’istituzione sia fonte del diritto, ma crediamo che tra il concetto di istituzione e quello di ordinamento giuridico sia perfetta identità”.
Ma cosa vuol dire che il diritto, sinonimo di ordinamento giuridico nel linguaggio corrente non è il prodotto dell’istituzione, sinonimo nel linguaggio romaniano di ordinamento giuridico? Solo una vuota tautologia, a meno che non si voglia così recuperare ciò che nel linguaggio corrente l’espressione ordinamento designa: l’ordinatio e l’ordinatum, il processo dell’ordinare e l’insieme degli strumenti mediante i quali l’ordine viene stabilito. Due cose tra loro comunicanti ma specificamente diverse e da non confondersi.
Ma c’è qualcosa di più significativo, nel senso che viene escluso che il processo dell’ordinare possa costituire il prodotto degli strumenti con cui si ordina: “ la legge non è mai il cominciamento del diritto, è invece una aggiunta al diritto preesistente o una modificazione di esso; il legislatore non è creatore del diritto nel senso di primo creatore del diritto”→ viene così predicata oscuramente identità tra quel qualcos’altro rispetto complesso degli strumenti dell’ordinamento (e cioè l’autorità, il potere, l’organizzazione e le norme) e il processo stesso dell’ordinamento.
Duplice intuizione di Santi romano:
- irriducibilità dell’ordinamento giuridico al sistema delle norme giuridiche;
- necessità di ricercare il principio dell’ordinamento nel processo stesso dell’ordinare.
A questo punto risulta necessario capire per quale motivo tale teoria, pur lontana da quella di Kelsen, viene accusata da Tarello di occultare fratture e individuare coerenza di un sistema che presenta contraddizioni e conflitti tra forze che si vestono come giuridica, istituzionalizzando cioè il predominio del più forte.
Leggiamo il testo dì Romano: “ il processo di obiettivizzazione non inizia con l’emanazione di una regola, ma in un momento anteriore: le norme non sono altro che una manifestazione con cui si fa valere il potere dell’io sociale; potere che costituisce il diritto stesso e, la norma, non è altro che la sua voce. L’obiettività delle norme non è che un riflesso dell’obiettività di tale ente (obiettività che si ricollega al carattere impersonale del potere che elabora e fissa la regola, potere che trascende e si innalza sugli individui)”.
Benché possa sembrare paradossale, dobbiamo riconoscere che la teoria istituzionalistica (Romano) costituisce un’identificazione del diritto col potere più radicale ancora di quella normativistica (Kelsen):
– per Kelsen infatti il potere è condicio sine qua non della giuridicità ma non è la giuridicità stessa, posto che la norma fondamentale a costituire la premessa maggiore, cioè a trasformare il potere in diritto;
– nella prospettiva di Romano l’ordinamento giuridico, inteso come processo dell’unificazione sociale di una pluralità di comportamenti individuali, è inteso esclusivamente come operazione di controllo delle possibili divergenze e contese tra gli individui→ dunque, come tutti i geometri delle leggi, postula la conflittualità come condizione originaria dell’uomo ridotto allo stato di individuo incapace di comunicare. Sicché l’unificazione degli individui può darsi solo a condizione che un io sociale si sovrapponga a tutti.
Questo “ io sociale” è qualificato come tipico (convenzionale), astratto (artificiale) e oggettivo (impersonale); in particolare l’oggettività non rappresenta qualcosa di comune a tutti bensì qualcosa di egualmente estraneo a tutti, ed è proprio questa estraneità, con la convenzionalità e l’artificialità, che consente la sovrapposizione a tutti dell’io sociale.