L’Inghilterra non dispone di un testo costituzionale scritto. In Inghilterra le fratture non hanno prodotto lacerazioni traumatiche tale da interrompere ogni riferimento formale-normativo. Il filo di continuità non va però tradotto nel mito di un sistema di libertà civile e politica edificata senza eccessivi costi. Nell’isola sanguinosi conflitti hanno decimato a più riprese le classi aristocratiche.
La specificità inglese consiste nella precoce comparsa di canali istituzionali in grado di concludere il conflitto tra i ceti in norma condivise e nella costruzione di poteri nuovi. La cornice istituzionale ha consentito alle controversie fra ceti di trovare sponde politiche più generali. La gloriosa rivoluzione del 1688-89, sviluppatasi senza spargimento di sangue, ha delineato una separazione dei poteri e risolto l’aspro conflitto tra parlamento e corona.
Il modello insulare-britannico si segnale per la rilevanza di accordi contingenti di contratti stipulati da molteplici soggetti che nel tempo chiedono una sistemazione normativa adeguata al potere reale acquisito nel paese. La magna charta del 1215 è uno stabilimentum che mostra la peculiare tendenza a risolvere le questioni particolari dei ceti ricorrendo a transazioni allargate alle quali accedono corona e ambiti parziali della società.
Le transazioni tra monarca e baroni sono nati su un piano particolaristico ma si proiettano presto su una scala politica nazionale. Il parlamento da organo feudale è diventato una organizzazione politica moderna. Ma la graduale trasformazioni di funzioni sociali in istituzioni politiche risponde più alle esigenze reali dei conflitti, che spesso degeneravano in guerre civili, che non a un piano preordinato da un singolo attore.
In origine il parlamento inglese svolgeva compiti piuttosto indistinti. La continuità della storia di istituti che nel tempo portano lo stesso nome non deve occultare la reale differenza esistente tra organi politici osservati in tempi diversi di funzionamento. Hintze (1979) “in Inghilterra lo stato nazionale è cresciuto lentamente procedendo di pari passo con il costituirsi del parlamento”.
Nel XIII secolo il parlamento nacque come uno strumento dell’assolutismo monarchico. Roskell (1971) ricorda per questo “l’origine autoritaria del parlamento” visto dal monarca come un veicolo del suo potere sull’intero regno.
La metamorfosi del parlamento, da organo consultivo voluto dalla corona in potere legislativo sovrano, svela gli effetti perversi di una scelta che il re ha concepito ab initio per racimolare più facilmente fondi e per imporre le sue politiche costose. Il lungo braccio di ferro tra la petition of rights che rigettava ogni violazione arbitraria dei patti solennemente stabiliti e le richieste del monarca di ottenere sterline necessarie per coprire le spese delle politiche regie, ha condotto alla istituzionalizzazione del parlamento come luogo più importante di legislazione.
1688: la dichiarazione dei diritti sprigiona un senso politico—costituzionale assai moderno ben più pregnante di quello racchiuso nelle carte precedenti. La dichiarazione sanciva ufficialmente il trapasso da una monarchia limitata dalle concorrenti pretese del parlamento a una monarchia costituzionale nella quale nessun potere dello stato può chiamarsi al di fuori della legge.
La dichiarazione precisava le condizioni di un generale primato della legge e predisponeva ambiti più certi per il godimento dei diritti individuali. Non più la corona, dunque, ma il parlamento interpretava la più alta funzione legislativa e incarnava i simboli dell’unità sovrana della nazione. In una materia rilevante come quella delle tassazioni, la dichiarazione stabilisca che “una esazione di denaro per la corona o per suo conto, sotto pretesto di prerogativa senza il consenso del parlamento è illegale”.
La fine del XVII secolo sanziona la ormai raggiunta centralità costituzionale del parlamento. Il fatto che il parlamento costituisse il centro del sistema statale non indeboliva affatto le prestazioni decisionali. Il parlamento-convenzione che nominava il re è il simbolo della completa metamorfosi subita dagli organi della rappresentanza. Da strumento docile del monarca assoluto, il parlamento diventava l’istituto provvisto di una supremazia politica indiscussa.
Dalla preoccupazione di definire un argine contro il potere arbitrario, il proposito del parlamento divenne quello di traghettare dapprima la transizione verso una coerente monarchia costituzionale e poi quello di delineare i contorni di una monarchia parlamentare.
Dal problema del controllo la sua ottica si spostava quindi verso la questione della forma di governo. Fu precisata la responsabilità davanti alla legge dei ministri della corona, ampliata la libertà di culto, prevista la continuità dell’azione parlamentare anche in caso di decesso del re. Il passaggio alle forme di una monarchia parlamentare è stato tutt’altro che indolore e scontato. L’act of settlement del 1701 conteneva una clausola insidiosa che introduceva un regime di incompatibilità tra la carica di ministro e quello di parlamentare.
Per tutto il 700 il parlamento ha continuato a limitare i poteri del re. Il mutamento istituzionale che condusse a una diversa collocazione dei comuni nella geografia dei poteri, è maturato a ridosso di conflitti politici reali. Il parlamento nel corso del 700 riuscirà a sottrarre alla corona anche la prerogativa esclusiva della scelta della rosa dei ministri.
Quando la parabola sarà completata, da consigliere privato del re, il ministro diventa esecutore di un programma varato dal parlamento. Lo strumento arcaico dell’ impeachment, previsto contro i ministri del re incappati in azioni penalmente perseguibili, venne soppiantato dal principio ben più sofisticato della responsabilità politica del governo.
Altro requisito che si consolidava come parte integrante della nuova forma di governo era quello della collegialità dell’indirizzo politico e della unanimità nell’adozione delle scelte dell’esecutivo. In seguito al consolidamento del moderno sistema di gabinetto, la tradizionale contesa tra monarca e parlamento è soppiantata dal principio della responsabilità politica del governo dinanzi a un pronunciamento degli organi rappresentativi.
Un punto di svolta importante si ebbe nel 1841, quando il capo del governo poteva confidare solo sulla fiducia della camera e non in quella della corona. La formazione di gruppi parlamentare stabili e il consolidamento della figura del premier costituirono la tappa fondamentale per la mutazione in senso moderno delle istituzioni politiche inglesi. Il governo dipende dalla fiducia della componente maggioritaria del parlamento.
La figura del premier ha acquisito col tempo uno splendore tale da lasciare alle sue spalle una immagine di uomo fidato sul quale si riversavano le aspettative e i favori del monarca. Nata quasi per caso, la funzione direttiva del primo ministro si è consolidata rapidamente già nel corso del 700.
Il cambiamento della forma di governo e la centralità assunta dal premier sono avvenute al di fuori di adeguamenti formali-costituzionali espliciti. Le prime avvisaglie del mutamento politico si ebbero già con Walpole in carica nel 1715-17 e nel 1721-42. emblematica è stata comunque la funzione svolta da Pitt.
Pitt incarnava la figura di un leader in carica che aggirava gli ostacoli del mancato sostegno dei comuni attraverso un appello diretto al ristrettissimo corpo elettorale coinvolto allora nella scelta dei rappresentanti. Nell’azione di Pitt si anticipavano alcuni tratti del moderno leader che trovava canali diretti di collegamento con il corpo elettorale.
I comuni avrebbero potuto ben poco senza la comparsa di un nuovo attore: il partito politico. Con il partito diventava protagonista della politica anche l’opinione pubblica organizzata. La radicale trasformazione delle istituzioni inglesi in un governo parlamentare si ebbe quando, con il soccorso della nuova realtà di partito, il premier si identificò con il leader riconosciuto della formazione politica uscita vittoriosa dalla consultazione elettorale.
Nel caso della predisposizione dei diritti politici, la precocità con la quale sono comparse le assemblee elettive si è accompagnata al sostanziale ritardo con il quale si è concluso il processo di democratizzazione. Fino al 900 quella inglese può essere descritta come “politics without democracy”.
L’esempio francese dell’allargamento dei diritti fu guardato con trepidazione dalle aristocrazie inglesi. Il timore di un contagio rivoluzionario consigliava di scendere affianco della reazione europea, di definire misure repressive contro la stampa sediziosa, di proibire le nascenti associazioni operaie. Le riforme degli anni 30 giunsero dopo decenni di battaglie spesso anche cruente.
Con il reform bill del 1832 i soggetti con diritti politici passarono da 435mila a 652mila. Ben visibili nelle elezioni inglesi erano anche fenomeni endemici di malcostume politico: comparivano i trafficanti di borghi. Alle pratiche poco raccomandabili cui si faceva ricorso in tempi di elezioni, non pose fine neanche la riforma del 1832.
Anche all’indomani della riforma, la distribuzione territoriale dei seggi restava profondamente ineguale e anacronistica. Malgrado i timidi passi in avanti contenuti nelle riforme degli anni 30, la politica inglese conosceva seri contraccolpi istituzionali. L’accanita resistenza dei lords a ogni allargamento del corpo elettorale gettò il sistema inglese nel vortice di una ennesima crisi istituzionale dai contorni incerti.
Bisognerà aspettare i reform bills del 1877 e del 1884 per vedere in maniera più apprezzabile l’estensione dei diritti politici, l’abbassamento dei requisiti di censo e di età, l’abolizione dei borghi putridi, l’attribuzione di nuovi seggi alle città industriali. Nel 1885 gli aventi diritto al voto passarono a circa 5 milioni di persone.
L’Inghilterra incarna il modello di una modernizzazione politica nella quale le garanzie dei partiti in lizza hanno preceduto l’ingresso delle masse nella vita politica. Nel duello tra i rappresentanti dei ceti aristocratici dominanti vennero precisate delle regole di combattimento utili anche quando i referenti sociali dei duelli parlamentari saranno ben diversi.
Le istituzioni di lunga durata plasmate dal gioco competitivo hanno influito profondamente sulla natura del partito politico inglese e sul suo senso di responsabilità istituzionale. L’allargamento del suffragio del 1867 e l’ulteriore intervento riformatore del 1885 scongelarono una situazione politica altrimenti esplosiva.
Trevelyan (1966) ritiene che “senza tale aggiornamento sarebbe crollato il sistema parlamentare”. Il grosso problema della storia costituzionale inglese, amplificato dal consolidamento del ruolo direttivo del premier, è sempre stato quello di garantire un controllo efficace della decisione politica in assenza dei tradizionali requisiti della separazione dei poteri e della supervisione costituzionale della legislazione.
Il superamento della divisione dei poteri tra parlamento e governo, in via ipotetica, potrebbe portare alla concentrazione di enormi chances di potere in mano alle leadership di governo. Se scivolamenti verso condizioni di arbitrio e di illegalità sono sempre stati scongiurati ciò è dovuto anche al fatto che prima ancora dell’ingresso della politica di massa in Inghilterra è precisato uno statuto dell’opposizione.
L’opposizione inglese è passato attraverso il difficile sentiero che dall’apparizione in parlamento, va alla accettazione dell’inserimento nella vita parlamentare di voci dissonanti, e arriva fino alla sua istituzionalizzazione completa.
1824: terminata la condizione di illegalità delle associazioni sindacali. 1855: abolita la tassa per pubblicare giornali. 1829: riconosciuto ai cattolici il diritto di essere eletti agli uffici pubblici. 1871: l’university tests act consentì agli studenti di laurearsi e di insegnare senza completare una scheda sulle confessioni religiose. 1872: le elezioni divennero segrete.
Le donne, oltre che prive di diritti politici, sono anche state tenute ben lontane dai diritti privati necessari per le transazioni mercantili. Neanche per gli operai inglesi la conquista dei diritti può considerarsi una passeggiata indolore.
La comparsa dei partititi è stata decisiva perché la forma di governo acquisisse una fisionomia stabile e l’opposizione politica smettesse gli abiti di una aggregazione periodica e congiunturale di personalità scontente della politica ufficiale e indossasse quelli più significativi di una organizzazione di idee e interessi in vista di un ricambio di governo. Solo sul finire dell’800 l’Inghilterra ha presentato una realtà di partito piuttosto strutturata.
Nei primi 4 decenni dell’800 i numerosi governi di minoranza andavano avanti solo grazie alla adesione di singoli deputati su materie particolari. Il trasformismo non è un fenomeno solo mediterraneo. Il superamento di questa instabile conduzione della vicenda parlamentare ha richiesto il rafforzamento dell’insegnamento partitico.
Il ventennio che va dal 1846 al 1867 è stato caratterizzato da una forte ingovernabilità e dall’assenza di una chiara maggioranza a sostegno degli esecutivi. I 13 anni che vanno dal 1867 al 1880 costituirono lo spartiacque per il trapasso a una diversa modalità di funzionamento delle istituzioni pubbliche. In questo periodo vengono create le moderne macchine di partito.
Tra il 1886 e il 1906, grazie alla presenza di partito, il governo divenne più stabile. Dopo le riforme del 1867 i partiti dominano i processi parlamentari ed elettorali, scelgono i candidati e fissano l’agenda politica. Dopo il 1867 non più il parlamento, ma l’elettorato è determinante in quanto interprete dell’opinione pubblica. I partiti dovevano curare nei dettagli la macchina organizzativa, provvedere a stabilizzare una routine burocratica.
La trasformazione del partito laburista in leale opposizione parlamentare ha richiesto una accorta strategia di inserimento nel tessuto politico istituzionale. La presenza di una fitta trama di istituzioni e di regole competitive adottate prima del consolidamento della politica di massa ha influito sulla evoluzione del partito laburista.
Già nel 1924 i laburisti guidarono il governo del paese. Proprio mentre imperversava la lunga guerra civile europea in Inghilterra i laburisti hanno superato la prova del governo e favorito il perfezionamento dello statuto dell’opposizione. L’opposizione diventava un normale momento della vita politica.
Guardato un po’ ovunque come modello da imitare per avvicinarsi alla stabilità, al rendimento e alla efficacia della politica, il sistema di Westminster è stato al centro di una diagnosi a tratti impietosa da parte di politologi e costituzionalisti inglesi. Non sono mancate sollecitazioni verso l’adozione di un documento costituzionale scritto e coerente.
Se verso il basso si propongono aperture alla sovranità popolare, verso l’alto si avanzano proposte per introdurre un organo di controllo costituzionale. È vero che gabinetto e premier entrano ormai in diretto collegamento col corpo istituzionale e che primo ministro viene designato il leader di partito rimasto in maggioranza. Ma questa eventualità, sebbene molto ricorrente, non esprime tuttavia una regola fissa.
Una clausola introdotta nel 1974 prevede la possibilità per il partito di sfiduciare il premier. Solo per consuetudine alla guida del governo viene chiamato il leader del partito di maggioranza. Quando manca un partito maggioritario si può riattivare il potere dormiente della corona nella designazione del primo ministro. Secondo Benn quello inglese è di fatto una forma di controllo personale del sistema di governo.
Il partito inglese si caratterizza per una precoce istituzionalizzazione che conduce alla elezione parlamentare della leadership. La parlamentarizzazione del partito non è comunque sinonimo di più trasparente di vita interna e di maggiore partecipazione democratica.
L’obiettivo è divaricare la soglia del milione di iscritti (nel 1949 gli iscritti individuali sono 691mila). Sono apparse anche in Inghilterra sollecitazioni a introdurre un registro dei partiti ispirato al modello tedesco, che attribuisce valenza pubblica ai partiti e in cambio esige statuti-tipo controllabili.
Devolution e gli autori propongono di orientare lo stato verso una più marcata autonomia regionalistica, secondo i criteri dominanti in Germania. Un avvenimento storico che ha rimescolato le carte delle dottrine giuridiche è stato l’ingresso nella comunità europea. Il diritto comunitario fa da surrogato all’assenza di un custode della costituzione.
La formula maggioritaria in Inghilterra è sovente avvertita come un fattore di grave irrigidimento della vita politica. Il sistema elettorale inglese si dimostra impermeabile dinanzi alle spinte politiche più nuove e non consente una adeguata rappresentazione degli umori reali del paese. Più che di bipartitismo bisognerebbe parlare di duopolio.
Le distorsioni del maggioritario sono apparse insostenibili dinanzi alla “eclissi del bipartitismo perfetto” e alla mancanza quasi ventennale di alternanza di governo. Tra gli interpreti più radicali si è insinuato il sospetto che dietro la mitologia del bipartitismo perfetto si sia incuneata la realtà ben più allarmante di una sindrome giapponese: “l’Inghilterra si avvia verso il modello giapponese di una democrazia retta da one-party governement”.
A lungo il bipartitismo è stato considerato come un semplice risultato della legge maggioritaria. Piuttosto lento è stato il processi di generalizzazione delle elezioni contestate o competitive che vedevano impegnati almeno due candidati in tutti i collegi. La “politica referenziale” consigliava a ciascun partito di non invadere il terreno altrui e quindi di non innescare una costosa logica competitiva in ogni angolo del paese.
Quello inglese dell’800 era una sorta di bipolarismo non competitivo che poggiava su un elevato numero di seggi non contestati, assegnati cioè in comode circoscrizioni nelle quali la quantità dei candidati presentati era pari al numero dei seggi in palio. Quando la riforma del 1885 introdusse collegi uninominali, ne i quali il seggio va al candidato meglio piazzato, il sistema dei partiti incentrato su due formazioni era già operante. Il maggioritario uninominale non ha inciso subito nella strutturazione del sistema e nemmeno ha inibito tendenze alla frantumazione.
Nel 1900 comparve il partito laburista. Il secolo si è aperto con uno scenario tutt’altro che bipartitico. Con l’affermazione di un robusto terzo partito, quello laburista, il conflitto sociale irruppe sulla scena politica e venne disturbato l’ordinario sistema bipartitico.
Non mancano nella storia elettorale inglese episodi di tripartitismo che hanno spinto verso la costituzione di governi di coalizione. In questi casi cambiano di significato anche le consuetudini costituzionali. Gli anni 20 hanno visto un sistema politico a 3 e a volte a 4 partiti rilevanti.
Nelle elezioni del 1992, si è notato un tripartitismo nelle scelte degli elettori ma un bipartitismo creato artificialmente da una legge maggioritaria a un turno unico. È la logica manipolativa della legge elettorale a conservare il bipartitismo. Con la sua logica che privilegia la funzione della governabilità su quella della rappresentanza, il sistema elettorale attribuisce a una minoranza del paese un’ampia maggioranza a Westminster.
Lijphart definisce come una “camicia di forza” il principio maggioritario quando si è in presenza di uno spazio politico diverso, non riconducibile a domande tradizionalmente coperte dal bipartitismo e quindi occupato da istanze politico-culturali nuove o postmaterialiste.
Non sono mancati nella storia clamorosi esempi che illustrano alcuni inconvenienti del sistema maggioritario in collegi uninominali. Nelle elezioni del 1929, del 1951, del 1974, il sistema maggioritario, in base al quale viene eletto chi racimola più voti in ogni singolo collegio, ha assegnato la maggioranza dei seggi al partito vincitore in più collegi ma con meno voti dell’altro partito su scala nazionale. Tra le altre cose, si va da circoscrizioni che si avvicinano ai 100mila elettori a circoscrizioni che ospitano solo 25mila votanti.
La storia del sistema politico inglese svela l’importanza del partito per il funzionamento della forma di governo. Un parlamento senza disciplina sarebbe preda dell’assoluta ingovernabilità. Secondo Bagehot la forte visibilità del partito richiede l’affinamento delle prerogative del premier ma anche la disponibilità a mostrare senso di responsabilità nell’adozione di una solida leadership.
Con il partito, la contesa diventava nazionale. La vita parlamentare ruotava attorno a gruppi disciplinati e compatti. Anche nella cosiddetta età dei partiti, il sistema era comunque tutt’altro che raffigurabile come un bipartitismo perfetto. Svolgeva infatti un ruolo molto battagliero il terzo partito, quello irlandese, caratterizzato da una invidiabile coesione.
L’affermazione di un ruolo direttivo dei partiti ha mutato in profondità la classica ripartizione dei poteri. Alle origini del rafforzamento del ruolo dei partiti si trovavano processi non proprio esaltanti. La corruzione sistematica si rintracciava nella fase antidiluviana di insediamento di gruppi parlamentari.
La comparsa del partito politico ha rappresentato un passaggio essenziale per l’allontanamento dei fenomeni di corruzione. Il controllo che il gruppo esercitava sul singolo deputato si faceva incalzante. Il premier con un seguito parlamentare maggioritario, nominava la sua compagine governativa, assicurava la realizzazione del programma politico scelto dal voto e esercitava di fatto la facoltà di ricorrere allo scioglimento anticipato della camera.
Con il ricorso dei tre principali partiti alla elezione da parte dei gruppi parlamentari del proprio leader, si è realizzata la parlamentarizzazione del partito e la partitizzazione delle istituzioni. Il leader del partito di maggioranza gode di ampie facoltà decisionali, come “un re senza corona”. Quando il premier dispone di una maggioranza compatta e guida perciò il suo partito senza problemi, egli diventa il vero signore della vita parlamentare.
Questa identificazione delle funzioni istituzionali di governo e di opposizione con due partiti conferisce una elevata funzione simbolica all’opposizione ma assicura solo una scarna capacità di intervento nella concreta gestione dell’indirizzo politico di maggioranza.
Con la comparsa di un governo di partito solido e compatto, la maggioranza si trova nella ipotetica condizione di prolungare la durata della legislatura, di emanare leggi sottratte a ogni controllo di legittimità.
Il sistema britannico è sprovvisto anche della possibile valvola di sfogo rappresentata dai referendum. Ai poteri locali vengono attribuiti esenziali compiti di gestione in settori rilevanti quali l’istruzione, la polizia, gli alloggi. La tendenza più marcata era quella di enfatizzare il decisionismo dei ministri manager capaci di seguire nel dettaglio tutte le fasi di gestione delle politiche pubbliche come si trattasse di processi aziendali gerarchicamente controllabili.
Il cittadino diventava semplice cliente. Non si è però istituzionalizzata la forma di governo manageriale. La raccomandazione di chi invita a non enfatizzare troppo la tendenza centralistica del sistema è comunque opportuna.
Sulla base della finzione della elezione del premier a opera degli elettori, si imbastisce una raffigurazione scenica nella quale il ruolo del parlamento risulta di mera comparsa. Un indebolimento della vecchia centralità del parlamento è ovunque all’attenzione degli analisti.
Il governo monopolizza l’iniziativa legislativa. Più del 95% dei suoi progetti di legge vengono approvati. La possibilità del singolo parlamentare, anche di maggioranza, di incidere nel processo legislativo sono diventate estremamente circoscritte.
Tutta l’organizzazione dei lavori parlamentari ha reso il governo padrone solitario dell’ordine del giorno. Il parlamento ha nelle sue mani poteri solo virtuali in merito alla vita dei governi. Affievolite sono anche le funzioni di investigazione e di controllo esercitate dal parlamento.
È ancora parlamentare il sistema inglese? Il parlamento diventa la “sede per dibattiti meramente rituali”. L’approvazione delle leggi è scontata. Indugiare troppo nella discussione significherebbe colpire il diritto del governo unto dal popolo di lavorare per rispettare i tempi previsti per attuare il mandato ricevuto. Il partito è il vero cardine del modello Westminster. Non solo il vertice della piramide, il premier, suppone un partito solido. Ma anche la base della piramide, l’elettore, segue le indicazioni del partito.