Il giudice è colui che gode del singolare potere di governare il linguaggio. Infatti il giudice=ius dicit e quindi è la forma più esclusiva di potere-sapere. L’espressione del titolo viene dal “Pour l’amitiè” di Blanchot, il quale autore sostiene che il diritto distribuisce in maniera diseguale le parole). Il risultato di questo aneddoto e del titolo è che anche senza Blanchot parla proprio del valore sovrano della parola: la parola regna sovrana nel mondo della contabilità giuridica e, infatti, dalla religione alla filosofia all’etica ognuno avrà giudici che produrranno parola. Allora per Blanchot il giudice è il solo “maitre du language”: egli ha il monopolio della sua decisione vincolante. Tutto inizia da una citazione o denuncia e poi tutto è consegnato a verbali. In seguito tutto si svolgerà in udienza che conterrà lo spazio di un ascolto, davanti ad avvocati, e infine il giudice produrrà sentenza che si dovrà solo ascoltare.
Il giudice vive fondamentalmente nel conflitto e egli decide il conflitto pronunciando l’ultima parola. Le parole quando richiamano la legge allora pesano: ciò basta per capire l’importanza del giudice. In questa fase è proprio il rapporto tra democrazia e giurisdizione a esser messo in discussione in questa fase: le ragioni son molte e complesse. Per il professor Resta un sistema giudiziario che decida su tutto può portare a forti quote di irresponsabilità. Si assiste nel nostro sistema a forti anomalie, interessanti il carattere onnivoro della giurisdizione, l’inflazione della litigiosità, carattere monopolistico della giurisdizione e rapporto confuso stato-sfera pubblica-giurisdizione. Tutto ciò ha provocato una distanza e quasi un dissenso dell’opinione pubblica rispetto al sistema giudiziario che dovrebbe garantire offerta di giustizia. Nel sistema di civil law la giurisdizione è stata affidata a un ceto professionale di competenti: tutto ciò ha portato a una competenza monopolistica della giurisdizione da parte dello Stato. Proprio la crescita vertiginosa delle aspettative che il popolo ha portato alla giurisdizione ha portato a alti gradi di inefficienza del sistema stesso. La nostra cultura giuridica trascura analisi sulla litigiosità che cresce: ciò è errato, in quanto sulle liti intervengono qualità endogene, come es. tendenza diritto a colonizzare ogni spazio vitale, e esogene, come es. economie divaricate. Il prof Resta allora sostiene che più che una giurisdizione onnivora, ma inefficace, ci dovrebbe essere una giurisdizione minima e ciò si potrebbe fare ritornando all’inizio dando una certa relativizzazione al giudice e alla giustizia. Ciò porterebbe pure a rivedere il monopolio della giurisdizione e ciò lo si vede dal circuito conflitto-rimedio: la cosa più aberrante è che spesso il modo in cui si litiga dipende proprio dal modo in cui lo stato può poi porre rimedi. Bisogna allora riformare i confini del sistema giudiziario
E’ possibile applicare alla questione della giustizia una logica paradossale dell’imputazione causale: i conflitti aumentano progressivamente e ciò si attribuisce a una mancanza di risorse che provoca inefficienza, aumentando quindi di seguito le risorse sperando che ciò faccia diminuire i conflitti. Ciò non solo non risolve ma anzi inflaziona il saldo di domanda e offerta, quindi aumentano risorse per apparato giudiziario ma i conflitti non diminuiscono e si cercano soprattutto i rimedi piuttosto che capire le cause che portano ai litigi.