In base all’art. 231 (già 174) del Trattato CE: «Se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato».

L’annullamento è retroattivo ed ha efficacia erga omnes, ma non deve necessariamente riguardare tutto il complesso dell’atto (la facoltà di disporre un annullamento parziale viene meno, peraltro, quando si tratta di una decisione nella quale gli elementi di cui si chiede l’annullamento sono inseparabili dall’insieme di essa: CGCE 28-VI-1972, causa 37/71, Raccolta, p. 483).

L’espressione di origine francese «non avvenuto» sta a significare che la sentenza di annullamento ha effetto retroattivo. Tuttavia l’art. 231, al secondo comma, stabilisce che «per quanto concerne i regolamenti, la Corte di giustizia, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti del regolamento annullato che devono essere considerati come definitivi».

La norma sembra significare che la Corte ha la scelta tra annullare la disposizione impugnata ed il mantenerla in vita definitivamente, senonché in qualche caso la Corte ha stabilito che le disposizioni di un regolamento annullato avrebbero continuato ad avere effetto sino all’emanazione di un nuovo regolamento. Così CGCE, 5-VI-1973, causa 81/72, Raccolta, p. 575, a proposito della remunerazione dei funzionari della Comunità, a favore dei quali un regolamento del Consiglio aveva disposto un aumento insufficiente: «per evitare una discontinuità nel regime delle remunerazioni», la Corte stabilisce che certe disposizioni di un regolamento del Consiglio che essa aveva annullato continuassero a produrre i loro effetti sino al momento in cui il Consiglio avrebbe emanato un nuovo regolamento.

Il potere di precisare gli effetti dell’atto impugnato che devono essere mantenuti in vigore è stato poi esteso dalla Corte alle direttive.

La Corte ha soltanto il potere di annullare l’atto o di respingere il ricorso: «nell’ambito della competenza d’annullamento essa non è legittimata né a confermare le decisioni della Commissione né a impartirle ordini», come l’ordine di modificare la disposizione impugnata (CGCE 26-II-1987, causa 15/85, Raccolta, p. 1005).

Vi è peraltro da tener conto dell’art. 229 (già 172) il quale prevede che i regolamenti adottati dal Parlamento unitamente al Consiglio oppure dal Consiglio «possono attribuire alla Corte di giustizia una competenza giurisdizionale anche di merito per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti stessi». Competenza «di merito» significa in questo caso il potere di riformare le disposizioni impugnate e, se necessario, di rivolgere un ordine o una condanna all’amministrazione comunitaria: l’oggetto del litigio non è infatti circoscritto all’esame della legalità obiettiva, ma si estende ad una valutazione dei diritti e degli interessi della parte in causa.

Un’applicazione assai nota della norma dell’art. 229 si trova nell’art. 17 del famoso regolamento 17/1962 della Commissione per applicare gli articoli del trattato relativi alla concorrenza: «La Corte di giustizia ha competenza giurisdizionale anche di merito ai sensi dell’art. 172 del trattato per decidere sui ricorsi presentati avverso le decisioni con le quali la Commissione commina una ammenda o una penalità di mora; essa può sopprimere, ridurre o maggiorare l’ammenda o la penalità di mora inflitta».

 

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