Come abbiamo osservato, le amplissime finalità del mercato comune non potevano formare oggetto di una regolamentazione dettagliata stabilita una volta per tutte.
I Trattati prevedono quindi due modi in cui gli organi comunitari possono agire: con un’azione diretta, consistente, nella CE, nell’emanazione di regolamenti – atti comunitari che introducono una disciplina normativa di portata generale, applicabile direttamente in modo uniforme in tutto l’ambito della Comunità – e un’azione indiretta, consistente nell’emanazione di direttive, che impegnano gli Stati membri ad un certo «risultato» lasciando libera la scelta dei mezzi, e di raccomandazioni.
Le particolari esigenze imposte dall’armonizzazione legislativa – via d’accesso obbligata al mercato comune – hanno dato origine a direttive molto dettagliate, simili ai regolamenti, alle quali è stata riconosciuta la prerogativa della forza normativa al livello dei soggetti di base dell’ordinamento comunitario. Le direttive sono quindi divenute «atti di portata generale».
Rientrano nell’azione diretta della Comunità anche le decisioni , atti individuali obbligatori in tutti i loro elementi (il Trattato CECA usava il termine «decisioni» per indicare congiuntamente gli atti normativi di carattere generale e gli atti individuali concreti).
L’art. 249 (già 189) prevede poi un’ulteriore categoria di atti: i pareri. La pratica comunitaria ha dato luogo alla formazione delle risoluzioni (emanate dal Consiglio o dalla Commissione), che poi si traducono in atti giuridici vincolanti, e delle comunicazioni (soggette ad impugnazione ex art. 230 se costituiscono fonte di obbligazioni, in forza del principio per cui è il contenuto e non la forma a determinare il regime degli atti giuridici: CGCE 16-VI-1993, causa 325/91, in Raccolta, 1993, p. I, 3291).
Gli atti provvisti di pieno effetto giuridico devono essere emanati dal Consiglio o dalla Commissione. Gli organi ausiliari istituiti dal primo o dalla seconda non ne hanno il potere. Così è stata necessaria una revisione del Trattato per istituire la Corte dei Conti, la quale pone in essere un’attività sua propria, cioè non imputabile alla Commissione o al Consiglio (in un secondo tempo è stata elevata al rango di «istituzione della Comunità»).
Con l’aumento dei poteri del Parlamento europeo, all’art. 189 sono stati aggiunti altri tre articoli (189 A, B, C – oggi divenuti 250-252) per disciplinare l’iter di formazione dei suoi atti. La normativa sulle fonti si è quindi ampliata.
In termini politologici, il potere legislativo della Comunità (modificatosi in vario modo con l’evoluzione di essa) può dirsi ancora appartenere prevalentemente al Consiglio.
Un elemento importante da segnalare è, comunque, che tutti gli atti della Comunità sono soggetti al controllo giudiziario della Corte di giustizia, la qual cosa ha determinato una certa diffidenza, e talvolta pregiudicato il progresso della costruzione comunitaria nei paesi membri, come la Gran Bretagna, che non accettano il principio del controllo degli atti del Parlamento da parte di un’apposita istituzione giudiziaria (si vedano, per un esempio, le problematiche provocate dal caso Factortame).
Gli atti comunitari aventi piena efficacia giuridica sono soltanto quelli emanati dalle istituzioni della Comunità elencate all’art. 7: Parlamento europeo, Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia, Corte dei Conti. L’art. 8 assimila ad essi la Banca centrale europea, alla quale un’altra norma del Trattato, l’art. 110, conferisce il potere di emanare regolamenti e decisioni, e di formulare raccomandazioni o pareri (ma non direttive).
In ogni caso – sia cioè che si abbia un’azione diretta o un’azione indiretta – gli organi della Comunità (Consiglio e Commissione) non sono titolari di un potere generale di normazione, ma di competenze specifiche: non possono in altri termini legiferare in campi pur connessi con il contenuto delle CE – ad es. in materia di festività – per i quali non abbiano ricevuto la competenza dal Trattato (peraltro, in questi anni vi è stato un impiego straordinario dei poteri impliciti, tutti estranei ai poteri «nominati»).
Si comprende quindi come sia stato necessario, per approvare modificazioni strutturali alla Comunità, ricorrere alla conclusione di accordi internazionali “ordinari” tra gli Stati membri. Ancor prima dell’Atto unico europeo e del Trattato di Maastricht ricordiamo il trattato concluso a Bruxelles l’8 aprile 1965 sulla fusione degli esecutivi, il trattato di Lussemburgo del 22 aprile 1970 sulla modifica delle competenze in materia di bilancio, l’atto del 20 settembre 1976 sull’elezione del Parlamento a suffragio universale etc. Anche l’adesione di nuovi Stati è stata attuata mediante accordi internazionali negoziati ex professo e non mediante una semplice adesione ai Trattati esistenti.