Può formare oggetto del ricorso per infrazione qualsiasi violazione degli obblighi comunitari determinata da un comportamento attivo od omissivo di uno Stato membro.

L’obbligo violato può derivare dal Trattato, da una norma di diritto derivato (generalmente si tratta della mancata o inesatta attuazione di una direttiva), dagli accordi internazionali vincolanti la Comunità, da una decisione della Commissione (come l’obbligo di recuperare un aiuto di Stato) e anche dai principi generali dell’ordinamento comunitario e da una sentenza della Corte di giustizia.

La violazione può dipendere sia dal comportamento degli organi centrali dello Stato sia dal comportamento di qualsiasi altra entità interna (quale potrebbe essere uno Stato membro di una federazione, una regione autonoma, un ente territoriale autonomo, un Comune etc.). Lo Stato italiano è stato più volte condannato per violazioni del diritto comunitario imputabili esclusivamente alle Regioni (si veda soprattutto CGCE 15-I-2002, causa C-439/99 in cui vengono censurate le norme emanate dalle nostre Regioni, in virtù di un potere ad esse attribuito dall’art. 117 Cost., vecchia formulazione, relativamente alla composizione dei consigli di amministrazione delle fiere campionarie).

A giustificazione del proprio comportamento uno Stato non può addurre norme o prassi costituzionali peculiari del proprio ordinamento interno oppure l’esistenza di competenze riservate a certi suoi enti pubblici interni o avvenimenti politici imprevisti (come lo scioglimento del parlamento, una crisi di governo etc.): in conformità con i principi del diritto internazionale generale, l’ordinamento comunitario imputa allo Stato tutte le attività poste in essere dalle sue «articolazioni» interne, ivi compresi gli organi giudiziari (relativamente ai fatti imputabili a questi ultimi, peraltro, sinora si sono avute soltanto procedure precontenziose). Anche il comportamento di una società privata può essere posto a carico dello Stato quando esista un legame particolare tra le società e lo Stato di appartenenza (si veda il caso Buy Irish).

La violazione degli obblighi sovente viene segnalata alla Commissione da persone fisiche o giuridiche interessate al loro rispetto. Naturalmente la Commissione avvia un procedimento solo in presenza di violazioni che considera sostanziali: generalmente si astiene dal farlo quando la violazione sia venuta meno al momento in cui si trova ad esaminare il caso (v. sotto).

La fase preliminare per l’attivazione della procedura giudiziaria si presenta in maniera differente a seconda che ad attivarla sia la Commissione o uno Stato membro.

a)Il procedimento su iniziativa della Commissione previsto dall’art. 226 (già 169) ha inizio con una richiesta di chiarimenti (sovente denominata «lettre pré-169») che la Commissione, o per meglio dire i servizi di essa (generalmente la direzione generale competente), indirizza allo Stato. Lo Stato destinatario della comunicazione può replicare. Se non lo fa, i servizi della Commissione gli inviano una lettera che contiene un invito formale a rispondere ai sensi dell’obbligo di cooperazione di cui all’art. 5 (ora 10) del Trattato.

Segue poi la lettera di «intimazione» o di «messa in mora» (mise en demeure), che costituisce la prima tappa ufficiale della fase precontenziosa. La Commissione la indirizza allo Stato se non è soddisfatta delle spiegazioni ricevute: in essa sono esposti in forma articolata – cosa che tuttavia non è obbligatoria (CGCE 11-VII-1991, causa C-247/89, Raccolta, p. I-3659) – gli addebiti mossi allo Stato e gli viene fissato un termine per presentare le sue osservazioni.

Segue poi il parere motivato, in cui sono precisati in dettaglio gli addebiti e possono essere indicate le misure che lo Stato deve adottare unitamente al termine in cui deve provvedere.

È ovvio che la decisione d’iniziare la procedura non può costituire oggetto di un ricorso di annullamento perché è un atto prodromico del giudizio che sta per iniziarsi; il ricorso è inammissibile anche contro la decisione di archiviazione perché la Commissione dispone di un potere discrezionale che esclude il diritto dei privati di esigere che l’istituzione si pronunci in un determinato senso (vedi sent. 1-III-1966, causa 48/65, Lütticke, in Raccolta, p. 27 e, da ultimo, ordinanza 12-VI-1992, C-29/92, Raccolta, p. I-3935). Contro l’inerzia della Commissione non è consentito neppure di esercitare il ricorso in carenza e, quanto al parere motivato, esso non può formare oggetto di ricorso in annullamento dato che l’art. 230 esclude il controllo di legittimità sulle raccomandazioni ed i pareri.

L’eliminazione della violazione da parte dello Stato entro il termine stabilito nel parere rende improcedibile (“irricevibile”) il ricorso alla Corte.

Se l’eliminazione avviene dopo che sia trascorso il termine, la Commissione può rinunciare al ricorso e generalmente lo fa se la violazione è eliminata prima dell’apertura della procedura orale. Essa conserva tuttavia il proprio interesse ad agire (CGCE 21-VI-1988, causa 283/86, Raccolta, p. 3271) che può servire, in modo particolare, per affermare la responsabilità dello Stato messo sotto inchiesta nei confronti degli altri Stati membri, della Comunità o dei privati (CGCE 7-II-1973, causa 39/72, Raccolta, p. 101).

Con la presentazione del ricorso alla Corte si inizia la fase contenziosa vera e propria. Per avviarla, la Commissione non è tenuta a rispettare un termine preciso: essa continua a fruire del suo potere discrezionale finalizzato ad ottenere una corretta esecuzione del Trattato da parte degli Stati membri.

Accanto a questa procedura generale, ve ne sono altre dette «derogatorie» nelle quali la Commissione può adire la Corte direttamente senza passare attraverso la procedura precontenziosa. Le principali sono quelle previste nell’art. 88 (già 93) per gli aiuti di Stato.

Si veda ad esempio quanto dispone il secondo comma del paragrafo 2 della norma citata. Se constata che un certo aiuto concesso da uno Stato non è compatibile con il mercato comune, la Commissione decide che lo Stato interessato deve sopprimerlo o modificarlo entro un certo termine: «Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale decisione entro il termine stabilito, la Commissione o qualsiasi altro Stato interessato può adire direttamente la Corte di giustizia, in deroga agli articoli 226 e 227».

In maniera analoga dispone l’art. 95 (già 100 A), 9: «In deroga alla procedura di cui agli articoli 226 e 227, la Commissione o qualsiasi Stato membro può adire direttamente la Corte di giustizia ove ritenga che un altro Stato membro faccia un uso abusivo dei poteri contemplati dal presente articolo» (si tratta delle misure di ravvicinamento delle legislazioni previste dall’AUE che lasciano alle parti la facoltà di mantenere in vigore normative nazionali discordanti in settori di particolare importanza, ma consentono alla Commissione di adire direttamente la Corte qualora lo Stato membro faccia un uso abusivo dei poteri conferitigli).

b)Anche nel caso di ricorso proposto da uno Stato membro ai sensi dell’art. 227, la Commissione svolge un ruolo importante. Prima infatti di proporre ricorso, lo Stato membro che lamenti una violazione da parte di un altro Stato membro (si ricordi che in base all’art. 292 gli Stati membri rinunciano, per la soluzione di controversie nascenti dal Trattato, a qualsiasi procedura, di carattere giudiziario o anche meramente conciliativo, diversa da quelle del Trattato), deve rivolgersi alla Commissione. Questa «emette un parere motivato dopo che gli Stati interessati siano posti in condizione di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte e orali». La mancanza del parere non impedisce tuttavia allo Stato di ricorrere alla Corte (art. 227, ultimo comma).

Questa procedura è stata attivata pochissime volte. Generalmente gli Stati sollecitano la Commissione ad agire e poi intervengono nel giudizio. Questo risultato dimostra da solo la bontà della soluzione adottata dagli autori del Trattato col dare alla Commissione il potere di agire come «guardiano del Trattato» anche nelle vicende giudiziarie.

 

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