La Corte di giustizia, stabilisce l’art. 235 (già 178) del Trattato CE, «è competente a conoscere delle controversie relative al risarcimento dei danni di cui all’art. 288 (già 215), secondo comma» (l’articolo 288, 2o comma, dispone: «In materia di responsabilità extracontrattuale, la Comunità deve risarcire, conformemente ai princìpi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni»).

Con le norme indicate si è voluto istituire nella Comunità un regime di responsabilità sulla base dei princìpi che disciplinano la responsabilità delle amministrazioni pubbliche negli Stati membri.

La competenza della Corte è esclusiva. Se un’azione per danni contro la Comunità viene proposta avanti ad una giurisdizione nazionale questa deve dichiararsi incompetente. Essa è limitata alla sola materia della responsabilità extracontrattuale per gli illeciti compiuti nell’esercizio delle funzioni, restando esclusa quando l’illecito derivi da atti estranei all’esercizio delle funzioni medesime.

Nei limiti fissati, la Corte ha una competenza, come suol dirsi, <tk;4>di piena giurisdizione<tk;1>: vale a dire è competente a determinare se e per quale motivo il danno possa essere imputato ad un’azione della Comunità e a decidere sull’entità di esso e sull’importo del risarcimento.

La formulazione dell’art. 288 Trattato CE è molto ampia, comprendendo ogni tipo di danno imputabile alla Comunità e qualunque causa. A provocare il danno può essere infatti un fatto naturale (v. sotto) o un atto giuridico (una decisione individuale della Commissione – ad es. in materia di concorrenza – oppure un atto normativo).

In materia di responsabilità extracontrattuale della Comunità, un diritto al risarcimento è riconosciuto qualora siano soddisfatte tre condizioni cumulative, vale a dire: a) la norma giuridica violata è preordinata a conferire diritti ai singoli; b) si tratta di una violazione sufficientemente caratterizzata, e c) esiste un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente alla Comunità e il danno subito dai soggetti lesi (così da ultimo TPG 6-XII-2001, T-43/98, Raccolta,… ).

Per quanto riguarda l’atto o il fatto imputato alla Comunità (la norma è generica, relativamente a questo punto, parlando di «danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti») si rileva una differenziazione, nella giurisprudenza della Corte, a seconda che si tratti di una decisione individuale o dell’esercizio di un’attività normativa: nel secondo caso sembra richiesta un’illegalità di particolare gravità, la quale è data quando si ha la violazione di una norma di diritto che conferisce diritti ai singoli e che ha un rilievo particolare (come il principio di proporzionalità, o il principio di tutela del legittimo affidamento).

Naturalmente, un atto comunitario illegale dev’essere annullato. Parrebbe da ciò che l’azione di responsabilità abbia sempre un carattere accessorio rispetto a quella di annullamento: anche la Corte (15-VII-1963, causa 25/62, Plaumann, in Raccolta, p. 197) in un primo tempo ha affermato che «un atto amministrativo che non sia stato annullato non può di per sé costituire un illecito, né causare quindi un danno agli amministrati» e che «la Corte non può eliminare per tale via le conseguenze giuridiche di un provvedimento che non è stato annullato». Successivamente ha cambiato opinione.

In tutti questi anni i danni per i quali è stato richiesto il risarcimento erano l’effetto di regolamenti comunitari (soprattutto in campo agricolo), cioè di atti di natura legislativa, che si asserivano illegittimi. Dalle sentenze della Corte emerge che il risarcimento è stato concesso solo in casi eccezionali, in cui è stato possibile accertare un danno dovuto alla violazione di una norma fondamentale volta a tutelare gli interessi dei privati.

 

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