La facoltà di promuovere l’azione avanti alla Corte contro uno Stato inadempiente non è riservata agli Stati contraenti, titolari – anche sul piano del diritto internazionale puro – del diritto di ottenere l’adempimento del trattato.
L’esperienza insegna che gli Stati sono alquanto restii a promuovere azioni giudiziarie l’uno contro l’altro e vi si adattano soltanto quando vedono posti in pericolo loro interessi vitali o sono costretti ad agire sotto la pressione dell’opinione pubblica: due circostanze che difficilmente si realizzano in una costruzione complessa come una comunità doganale ed economica che richiede una cura continua degli interessi collettivi oltre a quelli individuali dei contraenti.
Pertanto, il potere di adire la Corte per far constatare l’inadempienza di uno Stato membro è stato conferito anche all’esecutivo comunitario, cioè alla Commissione.
Questo espediente può dirsi assai ben riuscito se si tiene presente che nella CE contro il grandissimo numero di procedure iniziate dalla Comunità, sono eccezionali quelle promosse da uno Stato contro un altro Stato (anche se è frequente l’intervento degli Stati membri nelle cause promosse dalla Commissione contro altri Stati membri). Occorre ancora aggiungere che tutte le procedure sulla base dell’art. 226. Tr. CE sono, pur dopo l’incremento che si è avuto negli ultimi tempi, soltanto una minima parte dei ricorsi complessivamente proposti alla Corte.
La disciplina dei ricorsi prettamente «internazionali» – riguardanti cioè una violazione del Trattato (che però viene fatta valere, come subito si dirà, sul piano del diritto comunitario) o del diritto derivato – è stabilita agli articoli 226 e 227 del Trattato CE, i quali dispongono come segue:
Articolo 226 (già 169)
La Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente Trattato, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni.
Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di giustizia.
Articolo 227 (già 170)
Ciascuno degli Stati membri può adire la Corte di giustizia, quando reputi che un altro Stato membro ha mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente Trattato.
Uno Stato membro, prima di proporre contro un altro Stato membro un ricorso fondato su una pretesa violazione degli obblighi che a quest’ultimo incombono in virtù del presente Trattato, deve rivolgersi alla Commissione.
La Commissione emette un parere motivato dopo che gli Stati interessati siano posti in condizione di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte e orali.
Qualora la Commissione non abbia formulato il parere nel termine di tre mesi dalla domanda, la mancanza del parere non osta alla facoltà di ricorso alla Corte di giustizia.
Come si è già osservato (sopra, p. ), nei giudizi instaurati ai sensi degli articoli 226 e 227, in cui la Corte di giustizia è chiamata a pronunziarsi sull’esistenza di una violazione del Trattato da parte dello Stato convenuto, non si ha a che fare, neppure nel caso che il ricorrente sia uno Stato, con controversie che si svolgono nella sfera del diritto internazionale generale, ma con controversie che hanno luogo nell’ambito dell’ordinamento della Comunità ed attengono a norme comunitarie. Affinché uno Stato possa agire, non è infatti necessario, come dimostra una lettura dell’art. 227, che abbia subito la lesione di un proprio interesse materiale: basta che esso «reputi che un altro Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente trattato».
Non è del pari necessario, affinché uno Stato (o la Commissione) possa agire, che la violazione riguardi una situazione «transnazionale» della Comunità: può essere anche puramente interna.
Si veda CGCE 25-IV-1996, causa C-87/94, in cui lo Stato belga viene condannato perché una società pubblica di trasporto dopo di aver indetto una gara per la fornitura di 307 veicoli di trasporto, una volta chiuse le offerte aveva preso in considerazione delle «note supplementari», non previste dal bando di gara, presentate da uno dei partecipanti.
La sola legittimazione ad agire che deriva dalla qualità di Stato membro è in altre parole sufficiente (si potrebbe anche dire che si è in presenza di un’actio popularis).
A questo meccanismo di controllo giurisdizionale “primario” rimangono del tutto estranei i privati, i quali possono ricorrere alla Corte soltanto avverso atti delle istituzioni comunitarie e non dispongono di alcun mezzo di azione nei confronti degli Stati membri. La Corte ha negato ai singoli la possibilità di utilizzare il ricorso «per annullamento» dell’art. 173 (ora 230) contro il rifiuto della Commissione di iniziare la procedura d’infrazione (sent. 1-III-1966, causa 48/65, Lütticke c. Commissione, in Raccolta, p. 27). Successivamente ha rifiutato loro la possibilità di valersi dell’art. 175 (ricorso «in carenza»)
Nell’applicazione del Trattato è venuta a delinearsi la possibilità di pervenire comunque a questo risultato attraverso il meccanismo dell’art. 177 (ora 234) del Trattato CE (e 150 Trattato Euratom). Nel corso di un giudizio pendente avanti ad un giudice nazionale promosso da un privato nei confronti del proprio Stato si chiede una pronuncia della Corte di giustizia in ordine alla portata delle norme del Trattato che si assumono violate da parte dello Stato membro.
In questo modo non si ha una sentenza di condanna dello Stato ma una sentenza che, benché poi destinata ad inserirsi nel giudizio interno (è stato proprio in questo contesto, d’altronde, che è venuta enucleandosi la nozione di norma direttamente applicabile), esprime pur sempre il punto di vista dell’alta giurisdizione comunitaria.
La Corte ha dato assai per tempo la propria approvazione a questa pratica dichiarando, nel celebre caso Van Gend en Loos del 1963 (qui l’Olanda aveva violato una norma del Trattato e il ricorrente Van Gend en Loos non poteva di certo far valere la violazione sulla base dell’art. 227, allora 170), che «la vigilanza dei singoli, interessati alla salvaguardia dei loro diritti, costituisce d’altronde un efficace controllo, che si aggiunge a quello che gli articoli 169 e 170 affidano alla diligenza della Commissione». Successivamente ha ribadito questo concetto molte volte, anche con riferimento al diritto comunitario «derivato» (come i regolamenti, la cui obbligatorietà discende dal Trattato ma non ne fanno parte).
Si veda ad es. CGCE 20-I-1993, cause riunite C-106/90, C-317/90 e C-129/91, Raccolta, p. I-209, p. 40: «L’osservanza delle norme comuni e la loro applicazione uniforme, in tutti gli Stati membri della Comunità, possono essere garantite mediante il procedimento per inadempimento contemplato dall’art. 169 del Trattato, oppure nell’ambito dei procedimenti giurisdizionali promossi dinanzi ai giudici nazionali, che possono avvalersi del procedimento di cui all’art. 177 del Trattato. Un elemento ulteriore è dato oggi dalla giurisprudenza Francovich.
L’impiego di questo espediente può dar luogo a qualche abuso, come dimostra il caso Foglia/Novello (sent. 11-III-1980, causa 104/79, in Raccolta, p. 745, seguita poi dalla sentenza 16-XII-1981, in causa 244/80, Raccolta, p. 3045).