Con una propria decisione dell’8 novembre 1993 (93/591), il Consiglio ha stabilito di chiamarsi Consiglio dell’Unione europea.
La nuova denominazione, secondo la citata decisione, vale anche per gli atti adottati dal Consiglio in base ai titoli V e VI del Trattato sull’Unione europea: le dichiarazioni politiche che il Consiglio adotta a titolo di politica e di sicurezza comune vengono pertanto fatte a nome dell’«Unione europea». Per il passaggio all’unione monetaria è stata richiesta una composizione particolare del Consiglio (sopra, p. 28).
Non è mutata invece la denominazione della Commissione e della Corte di giustizia che rimangono «delle Comunità europee» anche se nelle comunicazioni alla stampa vengono chiamate Commissione europea e Corte di giustizia europea.
Il Consiglio è formato dai rappresentanti degli Stati membri: ogni governo vi invia un proprio componente di «livello ministeriale». Esso si riunisce su convocazione del presidente; la presidenza è esercitata da ciascun membro per la durata di sei mesi secondo un ordine stabilito da una deliberazione unanime del Consiglio. In pratica vi sono, oltre alle riunioni di carattere generale, alle quali prendono parte i ministri degli esteri, riunioni «specializzate» (frequentissime) convocate per trattare di questioni specifiche come l’agricoltura, le finanze, gli affari sociali etc.
Per raggiungere gli scopi stabiliti dal Trattato CE (diremo più avanti delle funzioni nel quadro dell’UE), il Consiglio (art. 202 CE):
- provvede al coordinamento delle politiche economiche generali degli Stati membri,
- dispone di un potere di decisione;
- conferisce alla Commissione le competenze di esecuzione delle norme che stabilisce (quest’ultimo punto è stato disciplinato in termini generali dalla decisione del Consiglio 87/373/CEE del 13 luglio 1987).
I poteri del Consiglio sono stati sensibilmente ridimensionati dalla creazione del Consiglio europeo.
I lavori del Consiglio sono preparati (art. 207 Tr. CE) dal Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (Coreper), costituito dai rappresentanti permanenti degli Stati membri presso la Comunità.
Creato con una decisione del Consiglio sulla base di un potere attribuito ad esso da una norma del Trattato di fusione degli esecutivi, l’esistenza del Coreper è stata definitivamente sancita dal Trattato di Maastricht. Esso non ha relazioni istituzionalizzate con il Parlamento europeo e i suoi membri agiscono su istruzione dei rispettivi governi, quasi come un’edizione anticipata del Consiglio.
L’influenza acquisita da quest’organo, di cui all’inizio si parlò assai poco, è rilevantissima. Assistiti da specialisti dei vari rami delle amministrazioni nazionali, i rappresentanti permanenti costituiscono un club a parte. Sono loro ad esaminare le proposte che pervengono dalla Commissione e a predisporre le relazioni per le rispettive amministrazioni.
Le deliberazioni del Consiglio sono adottate – secondo le prescrizioni stabilite nei vari articoli del Trattato – all’unanimità (le astensioni non contano: art. 205, 3), a maggioranza semplice o a maggioranza qualificata. In quest’ultimo caso (art. 205) ai voti dei membri è attribuita una certa ponderazione (10 voti ai quattro Stati maggiori; 8 alla Spagna; 5 a Belgio, Olanda, Grecia e Portogallo; 4 all’Austria ed alla Svezia, 3 a Danimarca, Finlandia e Irlanda; 2 al Lussemburgo: il totale fa 87).
La maggioranza, dopo gli «allargamenti» della Comunità del 1986 e del 1995, è stata fissata in una maniera che tenga conto della natura dell’organo proponente e dell’esigenza di assicurare un largo consenso (con il “controlimite” di non consentire che a fare la minoranza di blocco siano sufficienti due Stati “grandi”).
Il regime vigente è il seguente. Sono richiesti 62 voti: di qualunque provenienza quando si tratta di delibere da adottare su proposta della Commissione; che esprimano il voto favorevole di almeno dieci membri negli altri casi. Il numero di voti necessario per bloccare una delibera, e dare con ciò scacco al Consiglio, è fissato in 25: è perciò escluso che tale scopo possa essere raggiunto mediante l’accordo tra due grandi.
Con gli accordi di Nizza è stato stabilito, in una apposita dichiarazione, che in una prossima “Europa a 27” (che sarà raggiunta, tuttavia, solo nel 2007: sopra, p…) la ponderazione cambierà anche come ordine di grandezza: 29 voti ai 4 Stati grandi, 27 a Spagna e Polonia e giù sino ai 3 di Malta. La maggioranza sarà di 258 voti se si tratta di deliberazioni prese su proposta della Commissione; negli altri casi, oltre al quorum di 258 si richiede che abbiano votato a favore i due terzi dei membri e, se un membro del Consiglio lo richiede si dovrà “verificare” che questa maggioranza qualificata sia espressa da Stati che rappresentano “almeno il 62% della popolazione totale dell’Unione”.
Il significato di questo meccanismo è chiarito anche dalle regole poste negli articoli 250, 251 e 252; appare evidente che la proposta della Commissione è considerata una garanzia per i piccoli Stati contro maggioranze egemoniche.
Il voto a maggioranza semplice trova applicazione abbastanza di rado: eccezionalmente in materia di procedura.
A partire dall’AUE il voto a maggioranza qualificata ha conosciuto un notevole ampliamento, rafforzandosi con il Trattato di Amsterdam e con il Trattato di Nizza (che tra l’altro lo ha messo in vigore per la nomina del presidente e dei membri della Commisione, per la PESC, per la cooperazione giudiziaria in materia civile etc.).
L’unanimità resta d’obbligo per certi settori sensibili come l’ammissione di nuovi membri, la fiscalità, la sicurezza sociale, la cultura, la salute, mentre per altre (come il controllo alle frontiere esterne) è destinata a sparire nel 2004.
Nella pratica del Consiglio, tuttavia, per molti anni il voto a maggioranza non ha quasi trovato applicazione. Con i cosiddetti «Accordi di Lussemburgo» del 28 gennaio 1966 che mettevano fine alla grave crisi provocata nell’anno precedente dal governo francese che aveva rifiutato di partecipare alle sedute del Consiglio per dissensi sulla politica agricola (il 9 settembre 1965 vi fu una conferenza stampa del generale de Gaulle, presidente della Repubblica francese, che criticava il voto a maggioranza in seno al Consiglio e definiva la Commissione un «Areopago tecnocratico senza patria e senza responsabilità») fu deciso di accantonarlo. Il testo degli Accordi (i quali non vennero mai pubblicati sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee) sul punto del voto suona: «Quando, nel caso di decisioni che possono essere prese a maggioranza su proposta della Commissione, sono in gioco interessi molto importanti di uno o più partners, i membri del Consiglio si adopreranno a trovare in un ragionevole lasso di tempo soluzioni che possano essere adottate da tutti i membri del Consiglio nel rispetto dei loro reciproci interessi e di quelli della Comunità conformemente all’art. 2 del Trattato».
Questi accordi erano una sorta di «intesa» comunitaria, o dichiarazione di intenzione degli Stati, relativa ai loro futuri comportamenti nelle procedure di voto e nei confronti delle iniziative della Commissione. In sostanza comportavano una modifica tacita del Trattato fondata sul concetto che il Consiglio sarebbe rimasto una sede di negoziato diplomatico retto dalla regola dell’accordo all’unanimità, e non sarebbe mai divenuto un vero «governo europeo», retto dalla regola secondo cui la maggioranza s’impone alla minoranza dissenziente. In contrasto, appunto, con l’art. 148 del Trattato CEE (diventato ora l’art. 205 CE), si convenne su una formula molto sfumata, per cui l’applicazione della regola della maggioranza doveva far posto alla ricerca di una soluzione accettabile da tutti i membri del Consiglio, in tutte le ipotesi in cui fossero in gioco «interessi molto importanti di uno o più Stati membri»: ove così fosse, la discussione doveva proseguire fino al raggiungimento di un accordo unanime.
Benché gli Accordi prevedessero «la ripresa, secondo la normale procedura, dei lavori della Comunità», la prassi del Consiglio si è adeguata pienamente alle esigenze che li avevano ispirati, tanto che non si ebbero più votazioni se non per l’approvazione del bilancio. Consapevoli dell’illegalità degli accordi di Lussemburgo, al vertice di Parigi del 1974, i Capi di Stato e di Governo convenivano «di rinunciare alla pratica che consiste nel subordinare al consenso unanime degli Stati membri la decisione di ogni questione, quale che possa essere la loro posizione riguardo alle conclusioni raggiunte il 28 gennaio 1966».
Le votazioni a maggioranza nelle questioni importanti ripresero però solo col voto del 18 maggio 1982.
Le discussioni del Consiglio si svolgono di solito senza pubblicità, come è del resto consuetudine nel negoziato internazionale tra governi.
Tra i mutamenti istituzionali degli ultimi anni, vi è da segnalare la maggiore importanza assunta dalla Presidenza del Consiglio come tale. A determinarla sono state le necessità pratiche che discendono dalla maggiore difficoltà di guidare, nella Comunità ampliata, un organo che riunisce i rappresentanti di nove, e ora di quindici paesi. Hanno influito pure, in questo processo, il ricorso troppo esteso all’unanimità (e pertanto a compromessi talvolta senza legame con la proposta della Commissione) nonché la prassi del Consiglio europeo.
Limitando a sei mesi la durata della presidenza, i negoziatori del trattato hanno creato un equilibrio che, a trent’anni di distanza, conserva tutto il suo valore. La presidenza è spesso l’occasione di un impegno europeo dello Stato interessato e nello stesso tempo i sei mesi di presidenza del Consiglio sono un periodo abbastanza breve da consentire una rotazione spedita – evitando, con l’alternanza dei paesi grandi e dei meno grandi, il rischio di un’egemonia – ma sufficiente per ottenere dei risultati.
La cooperazione fra presidenza e Commissione rimane la regola generale e dà buoni risultati se la presidenza svolge realmente la sua funzione di animatore politico e di arbitro imparziale delle riunioni del Consiglio e dei suoi organi preparatori.