La ragione dell’art. 177 si comprende, come già abbiamo rilevato (sopra, p. 134) se si pensa che la maggior parte del diritto comunitario viene applicata, o comunque è applicabile all’interno degli Stati membri e ad opera degli organi di questi ultimi. Sono gli organi degli Stati membri – non soltanto i giudici, ma anche gli organi dell’amministrazione (si pensi per tutti alle dogane; si consideri pure che l’80% del bilancio comunitario è gestito dalle autorità nazionali) – gli <tk;4>strumenti del diritto comunitario:<tk;1> non soltanto per i regolamenti, che sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in tutti gli Stati membri (senza che vi siano degli organi specificamente pertinenti alla Comunità predisposti per vigilare sull’applicazione), ma in generale per tutte le disposizioni del Trattato cui è stata riconosciuta l’efficacia diretta.
La grande maggioranza della normativa comunitaria, primaria e derivata, viene dunque eseguita dagli organi statali. Poiché questi rimangono, in tutto e per tutto, soggetti alle norme dello Stato cui appartengono relative al controllo giudiziario degli atti dell’amministrazione, avviene che i tribunali statali debbano occuparsi del diritto comunitario, il più delle volte, avendo da risolvere un quesito consistente, si potrebbe dire, nel conciliare e contemperare le normative comunitarie con le situazioni giuridiche tutelate dall’ordinamento interno dello Stato cui appartengono.
La soluzione più semplice e logica sarebbe stata, in questo caso, l’istituzione di un ricorso diretto avanti alla Corte di giustizia aperto ai singoli contro le decisioni delle autorità nazionali o dei giudici nazionali che applicano il diritto comunitario. Senonché ciò avrebbe implicato una lesione della sovranità nazionale che gli Stati membri non avrebbero accettato (e non sono disposti ad accettare neppure oggi). Di qui la rinuncia ad una soluzione fondata sulla gerarchia in favore di una soluzione fondata sulla cooperazione (ciò non ha impedito tuttavia che il ricorso “federale” respinto dai creatori del Trattato risorgesse nella forma più blanda che subito veniamo ad esporre).
Si aggiunga che uno schema genuinamente federale avrebbe imposto di attivare la competenza della Corte comunitaria solamente dopo l’emissione della pronuncia del tribunale nazionale. Adottando invece il criterio della ripartizione delle funzioni tra la Corte comunitaria ed il giudice nazionale e facendo intervenire la Corte comunitaria nel processo decisionale del giudice nazionale si ottiene una giustizia più spedita.
Problemi d’interpretazione del diritto comunitario vengono sollevati, talvolta, anche nell’ambito della giurisdizione penale, per il fatto che numerose leggi economiche e fiscali – dunque concernenti le materie regolate dal Trattato CE – contengono delle disposizioni penali. Più volte la Corte ha avuto modo di statuire che il giudice nazionale deve disapplicare una normativa nazionale penale contrastante con il diritto comunitario.
Lo stesso vale per l’AutoritĂ garante della concorrenza e del mercato. Nella recentissima sentenza 9-IX-2003, causa C-198/01, la Corte ha statuito: 1) In presenza di comportamenti d’imprese in contrasto con l’art. 81, n. 1, CE, che sono imposti o favoriti da una normativa nazionale che ne legittima o rafforza gli effetti, con specifico riguardo alla determinazione dei prezzi e alla ripartizione del mercato, un’autoritĂ nazionale preposta alla tutela della concorrenza cui sia stato affidato il compito, in particolare, di vigilare sul rispetto dell’art. 81 CE: – ha l’obbligo di disapplicare tale normativa nazionale.
L’affermarsi dei due princìpi dell’efficacia diretta delle norme del Trattato e del primato del diritto comunitario – due princìpi che la Corte stessa ha condotto al successo – oltre ad avere aumentato in maniera gigantesca i ricorsi ex art. 177, ha fatto assumere alla Corte una funzione nuova, probabilmente estranea agli intendimenti degli autori del Trattato, nella quale il rinvio pregiudiziale si avvicina molto, come si è osservato, al ricorso per inadempimento da parte di uno Stato e che, visto il quadro giuridico in cui si svolge – la procedura nasce infatti da un tribunale statale e poi ritorna ad esso – la porta ad esercitare una funzione che si potrebbe definire di controllo del diritto comunitario da parte dei singoli soggetti (una vera questione pregiudiziale sarebbe, per esempio, se un assegno di custodia a domicilio di un figlio, quale previsto dalla legge norvegese, costituisca una “prestazione familiare” ai sensi del regolamento CEE 1408/71: ma questo è un “tipo” di quesito ben diverso da quelli che abbiamo incontrato e incontreremo).
Questa evoluzione si è iniziata con i casi Van Gend en Loos (sent. 5 febbraio 1963, causa 26/62, Raccolta, p. 3) e Costa/Enel (15 luglio 1964, causa 6/64, Raccolta, p. 1127) e si è completata con il caso Simmenthal (9 marzo 1978, causa 106/77, Raccolta, p. 629).
Nel caso Van Gend en Loos, (per i particolari, si veda sopra cap. 4) la prima questione deferita alla Corte consisteva nello “stabilire se l’art. 12 del Trattato abbia efficacia immediata negli ordinamenti interni degli Stati membri, attribuendo ai singoli dei diritti soggettivi che il giudice nazionale ha il dovere di tutelare”.
La Corte ha risposto affermativamente dichiarando che «ove le garanzie (contro la violazione del Trattato da parte degli Stati membri) venissero limitate a quelle offerte dagli articoli 169 e 170 (ora divenuti 226 e 227), i diritti individuali degli amministrati rimarrebbero privi di tutela giurisdizionale diretta» e che «la vigilanza dei singoli, interessati alla salvaguardia dei loro diritti, costituisce un efficace controllo che si aggiunge a quello che gli articoli 169 e 170 affidano alla diligenza della Commissione e degli Stati membri».
L’anno seguente, nel caso Costa/Enel, il giudice conciliatore di Milano trasmetteva la seguente questione: «Visto l’art. 177 del Trattato istitutivo della C.E.E. 25 marzo 1957, recepito nell’ordinamento giuridico italiano con la legge 14 ottobre 1957 n. 1203 e ritenuto che la legge 6 dicembre 1962 n. 1643 ed i successivi decreti del Presidente della Repubblica […] violino gli artt. 102, 93, 53 e 37 del Trattato stesso, sospende il giudizio ed ordina la trasmissione di copia autentica degli atti di causa alla Corte di Giustizia della ComunitĂ Economica Europea a Lussemburgo».
Il governo italiano chiedeva che la domanda del giudice conciliatore fosse considerata «assolutamente inammissibile» perchĂ© «in questo caso, il Giudice non deve applicare alcuna norma del Trattato di Roma nĂ©, quindi, può avere dubbi circa la interpretazione del Trattato, secondo la situazione chiaramente presupposta dall’art. 177 dello stesso Trattato, bensì soltanto la legge interna (quella appunto sull’E.N.E.L.) che regola la materia sottoposta al suo esame: […] la questione se uno Stato membro abbia violato, con una legge interna, degli obblighi comunitari, può essere sollevata soltanto mediante il procedimento di cui agli artt. 169 e 170 del Trattato, procedimento al quale i singoli non possono partecipare, nemmeno indirettamente» (per altri particolari del caso, v. cap. 5).
Un’altra evoluzione di grande rilievo si è avuta quando ha preso piede il metodo consistente nell’esaminare il diritto statale dal punto di vista degli obblighi del diritto comunitario (giurisprudenza Francovich). Così l’art. 177 è servito sovente da strumento di controllo giudiziale della compatibilità di leggi e di pratiche amministrative nazionali con il diritto comunitario.
La sua funzione “quasi-federale” non è spiaciuta alla Corte che in taluni casi, come il Factortame, ha alquanto “caricato” la propria funzione concludendo che:
Il diritto comunitario dev’essere interpretato nel senso che il giudice nazionale chiamato a dirimere una controversia vertente sul diritto comunitario, qualora ritenga che una norma di diritto nazionale sia l’unico ostacolo che gli impedisce di pronunciare provvedimenti provvisori, deve disapplicare detta norma.
Comunque, per porsi al riparo dalla critica di esorbitare dalle proprie funzioni, che riguardano l’interpretazione del diritto comunitario e pertanto non dovrebbero in alcun modo vertere sul contenuto delle leggi statali, la Corte, a partire da un certo momento, ha inserito nelle proprie pronunce (nelle quali in realtà controllava la legislazione interna di uno Stato) una formula del seguente tenore: «Se deve risolvere questioni miranti a consentire al giudice nazionale di valutare la conformità con il diritto comunitario di disposizioni nazionali, la Corte, pur non essendo competente a pronunciarsi – sulla base dell’art. 177 – sulla validità di una legge nazionale, può fornire gli elementi interpretativi del diritto comunitario che consentiranno al giudice nazionale di pronunciarsi sul problema giuridico di cui è investito».
Il problema giuridico, si noti, non consiste soltanto nell’applicazione di una legge da parte del giudice, ma anche nell’emanazione di un provvedimento amministrativo (CGCE 29-IV-1999, C-224/97, Raccolta, p. I-2517: «Non è in alcun modo possibile sostenere che la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta e che è compito dei giudici nazionali garantire debba negarsi agli stessi singoli nel caso in cui la controversia abbia ad oggetto la validità di un atto amministrativo»).
Nonostante questa prassi, la Corte di giustizia non è diventata un’istanza di revisione o di cassazione dei giudici nazionali, né deve diventarlo.
Da qualche anno in qua, essendo ormai la Commissione molto più propensa ad iniziare procedure per infrazione contro gli Stati, è divenuto abbastanza frequente che<tk;4> alla Corte giungano insieme procedimenti per infrazione e questioni pregiudiziali che riguardano le stesse normative nazionali <tk;1>(v. per es. il caso Factortam.). In questi casi vediamo attivate le due procedure create dal sistema giudiziario comunitario per tutelare i diritti violati da un comportamento degli Stati. In essi, la Corte esamina le due procedure nella medesima udienza.