Il 15 febbraio 438 risulta data a Costantinopoli la costitu­zione con la quale si promulgava il Codice intitolato a Teodo­sio II, Augustus senior regnante nella parte orientale (NovTheod 1). Da tale momento la quotidianità degli operatori del diritto, inclusa la prassi giudiziaria, si sarebbe dovuta attenere esclusivamente al compendio delle costituzioni imperiali prodotto al tempo di Costatino, ed ora fatto sistemare dal dominus. A tale codice si sarebbe poi aggiunto tutto quello che la volontà normativa impera­toria avesse prodotto in futuro.

Appare comunque singolare, ed all’apparenza persino inspiegabile, il fatto che il Codice Teodosiano fosse stato presentato in Occidente non con la legge NovTheod 1, bensì con una oratio imperiale, la CTh 1, 1, 5. Dal § 4 dei Gesta senatus Romani de Theodosiano pubblicando (atti del senato relativi alla pubblicazione de codice), infatti, risulta la lettura ufficiale, sul finire del 438, di quest’ultima costituzione risa­lente a quasi dieci anni prima: essa era stata data in Oriente, a Costantinopoli, il 26 marzo del 429. In pratica, nell’effettuare la recitatio normativa in senato relativa alla pubblicazione occidentale di quel Codice destinato ad esse­re obbligatorio per tutti, il prefetto pretorio e console, Fausto, invece di leggere il codex del 438 (col quale nella capitale d’Oriente si erano già promulgati i sedici libri legum), aveva dato lettura della più antica costituzione teodosiana del 429. Egli aveva quindi letto la vecchia legge programmatica, Ad similitudinem Gregoriani (CTh 1, 1, 5), invece che la lex del 15 febbraio dello stesso anno, Saepe nostra clementia (NovTheod 1).

Una volta escluso «un [avvenuto] errore di trascrizione» o un errore «di lettura» da parte del funzionario al­lora preposto alla prefettura d’Italia (ritrattava infatti di una personalità di grande importanza ed esperto funzionario), non appare credibile che un fatto del genere possa essere stato il frutto di una pura e semplice casualità.

Per ciò che concerne il testo teodosiano del 438, non è inopportuno ricordarne brevemente una parte della interessante tradizione mano­scritta, sensibilmente alternativa a quella che poi sarebbe stata accolta dalla moderna e diffusa edizione critica.

Nell’edizione cinquecentesca del Teodosiano realizzata da  Johannes Sichardus, questi pose la Saepe nostra clementia al principio del Codice. Le successi­ve e varie edizioni, al contrario, inclusi i contributi di Cuia­cio e poi quelli di Gotofredo, avrebbero seguito un’ altra via rigidamente fondata sui codici manoscritti, escludendo la Saepe nostra clementia dal corpo della compilazione, destinandola allo spazio riservato alle novellae.

Tuttavia, il ritrovamento nel sec. XIX del codice miscellaneo Ambrosiano C. 29 inf., contenente brani del Brevia­rium di Alarico (quindi taluni testi ex Theodosiano), avrebbe potuto consentire una rivisitazione di alcuni termini del pro­blema. Infatti – come sottolineava Volterra -, la convinzione scientifi­ca di Sichardus (fino ad allora ancora sostanzialmente indi­mostrata), avrebbe anche potuto trovare una sorta di «ri­scontro con l’ordine delle materie seguito [appunto] dagli ignoti compilatori del Cod. Ambros. C. 29 inf». Il mano­scritto riproduceva come prima costituzione del compendio teodosiano, dopo l’elenco delle varie rubriche, proprio la Saepe nostra clemen­tia del 438.

Ciò che fa riflettere è il fatto che il Codice Ambrosiano, oltre ad accoglie­re la Saepe nostra clementia teodosiana ed a considerarla in­troduttiva dell’intero Codex, avrebbe contemporaneamente raccolto gli atti del senato all’interno dei quali ri­sulta documentata l’avvenuta lettura da parte del prefetto d’Italia della costituzione del 429, ovvero la più vecchia legge programmatica del Codice.

Pertanto, se da un lato questa tradizione manoscritta parrebbe aver sistemato nel modo più consono la Saepe nostra clementia (come logica introduzione al Codice ufficiale), essa vi avrebbe associato pure, ma con eviden­te antinomia, la vecchia disposizione teodosiana con la quale si erano pensati di raccogliere sia le leges generali postcostantiniane, sia la connessa armonizzazione delle risultanze giurisprudenziali classiche (assenti, viceversa nella compilazione effettivamente realizzata).

Tuttavia, proprio per la disparità fra il contenuto della legge del 429 e la realtà del solo ius principale (diritto imperiale) effettivamente condensato nei materiali dei libri teodosiani, può ritenersi che in qualche misura si debba cercare di motivare l’insolita presenza di CTh 1, 1, 5 negli atti del senato, presenza che tra l’altro sarebbe anche potuta apparire, al­meno di primo impatto, persino superata con le sue ambiziose indicazioni programmatorie. Infatti, al di là di evidenti argomenti d’ordine sostanziale (cronologici) che potrebbero anche escludere l’avvenuta redazione della Saepe nostra cle­mentia all’epoca in cui il Codice veniva materialmente ‘passato’ in Occidente (a. 437), è probabile che potrebbero essere state motivazioni ideologiche ad aver spinto i sovrani a far leggere solennemente in Roma i vecchi materiali legislativi a preferenza di quelli appena emanati.

Si deve concordare con quanti ritengono che il Teodosiano abbia rappresentato un cosciente e moderno tentativo di compilazione sistematica, indirizzato ad affron­tare le necessità quotidiane della coeva realtà giuridica. Si sarebbe trattato di una codificazione volta a risolvere le esi­genze poste al centro del potere, costantinopolitano e poi ravennate, dalla multiforme società dell’epoca; esso avrebbe sistemato «per la prima volta, […] secondo un disegno confacente, non solo il diritto relativo alle necessità dei privati (ius quod ad singulorum utili­tatem specta[ba]t), ma bensì anche il diritto relativo allo stato romano (ad statum rei Romanae (specta[ba]t)». È fuor di dubbio che la compilazione di Teodosio avrebbe contribuito ad in­dirizzare concretamente la politica del diritto in forme nuo­ve: non solo negli aspetti me­ramente tecnici, bensì anche nel profondo, per quello che concerneva i principi medesimi degli indirizzi legislativi. Il significato del Teodosiano, se da un lato si può ancora rappresentare come una tappa importante degli ultimi segmenti della storia giuridica del mondo pienamente romano, d’altro canto costituiva assai di più. Proprio la sostanziale differenza e la novità di tale operazione rispetto ad ogni al­tro singolo momento giuridico dell’ antica realtà (almeno fino a Giustiniano) connotava l’opera in maniera tale da collocarla come tratto epocale e frazione di svol­ta dell’intera evoluzione dell’età tarda.

Proprio l’ampio significato culturale, sia politico sia giuridi­co, dell’apparizione di un tale corpo di leggi offre una risposta al quesito che si è ­posto. A fronte dell’avvenuta realizzazione di un disegno diver­so da quello tracciato in origine (che prevedeva la raccolta e l’armonizzazione con le leges dei contributi giurisprudenziali disponibili), il segnale migliore, per manifestare l’ininterrotta continuità della legislazione, era proprio il ricordo (‘ufficialissimo’ vista la sede in cui esso avveniva) del vecchio, originario progetto di codificazione, tuttora incompleto ma ancora utilmente rintracciabile in CTh 1, 1, 5.

Sta di fatto che a Roma, nel 438, avrebbe avuto senz’al­tro maggiore significato legare la pubblicazione del Codice al vecchio progetto piuttosto che alla recente lex orientale di promulgazione. Sembrava meglio, quindi, allinearsi l’idea di partenza della cancelleria costantinopolitana (CTh 1, 1, 5), piuttosto che even­tualmente enfatizzare la nuova constitutio, la Saepe nostra clementia, dandone pubblica e solenne lettura; con questa legge, purtroppo, si era dovuto prendere atto, ufficialmente ed appieno, della irrimediabile assenza dalla compilazione siste­matica, di quel materiale (ad es. contributi giurisprudenziali) che in origine si era sperato di unire ordinatamente, assieme alle leges costantiniane ed a quelle degli altri e più recenti principi catholici.

Il messaggio rivolto dalle due corti ai sudditi della pars Occidentis dà l’idea di essere stato abbastanza chiaro: Fausto esprimeva in linea di principio la volontà di entrambi i sovrani, nella sostanza dei fatti, però, egli si faceva portatore immediato del solo volere di quello ravennate.

È altamente probabile che l’opzione di trascegliere un testo «ex codice Theodosiano» per la solenne seduta romana, ed in particolare selezionarne CTh. 1, 1, 5, servisse in primo luogo a mostrare senza equivoci ai Romani un perfetto allineamento del sovrano presente in Italia con la scelta codificatoria del più autorevole collega orientale (non per niente sia senior, sia summus). Non a caso, Valentiniano aveva consentito al­l’efficacia occidentale delle norme raccolte nel nuovo compendio sia con la devozione del collega, sia con proclamato affetto filiale per il parente imperiale di Costantinopoli. Egli mostrava di ac­cettare la novità dell’operazione compilatoria, il suo conte­nuto sostanziale, i conseguenti e futuri risultati pratici, la sua innegabile e generale importanza politica. È altrettan­to probabile, però, che da parte occidentale si intendesse sottolineare solennemente che tutta la disponibilità nei ri­guardi del lavoro portato a termine dal potente legislatore di Costantinopoli era ben radicata non solo nell’estrema utilità pratica del nuovo Codice, ma anche nel fatto che esso, tutto sommato, non si era poi completa­mente allontanato da quella prospettiva legislativa che a suo tempo era stata individuata proprio in seno agli archivi d’Occidente.

Proprio il provvedimento scelto (1, l, 5) avrebbe ricordato a tutti, come già alla lontana i tecnici orientali si fossero resi concretamente disponibili in materia di fonti «ad accettare una possibile varietà di opinioni se­condo il più genuino spirito romano». Tutto ciò, nonostante essi avessero poi imbrigliato la varietas delle opinioni de­gli antichi autori negli schemi operativi di natura legislativa. Nelle more dell’imminente entrata in vigore del Codice nelle due legatissime parti dell’Impero, ovvero in funzione di essa, il documento in CTh 1, 1, 5, rispetto a quello poi di Nov Theod 1, costituiva senza dubbio alcuno un segnale rassicurante per i sudditi non di lingua greca, e specialmente per i tanti pratici del diritto. Pertanto, al fine della pubblica manifestazione della inte­sa politico-dinastica fra le corti, non c’era nient’altro di meglio che eviden­ziare gli elementi di continuità della politica del diritto tut­tora presenti nei materiali della compilazione. Una compila­zione, per di più, che doveva ormai ritenersi definitiva nella sua pretesa compiutezza sia per il sovrano d’Oriente che per quello d’Occidente.

Le leggi raccolte nei sedici libri avrebbero consentito l’utilizzazione ed il migliore futuro indirizzo dell’enorme quantità di materiale reperibile, spesso ambiguo e caotico.

Altrettanto utilmente è possibile ricordare pure uno scritto anonimo del sec. IV, nel quale era evidente l’appello rivol­to al regnante affinché “illuminasse le confuse e contrastanti regole normative” contemporanee: De rebus bellicis 21, 163. Questo testo è interessante perché focalizzava il suo discorso sulle sole leges ed i connessi pro­blemi civili, quasi che per le esigenze di giustizia non fosse più necessario riferirsi genericamente al ius – e quindi ai più antichi iura -, ma bastasse ormai far riferimento alla sola produzione legislativa imperatoria.

Consapevole sia di questa generale impostazione di fon­do del lavoro teodosiano sia della pretesa potenziale esaustività della compilazione, nel momento della pubblicazione del Codex, la cancelleria ravennate non poteva che dare rilievo a quella parte della politica normativa occi­dentale che apparisse sostanzialmente contigua, e persino precedente, alle scelte operate negli uffici d’Oriente. Poiché adesso gli iura entravano nel Codice solo indirettamente, è forse pensabile ad una sorta di ideale ripro­posizione del vecchio progetto compilatorio. Potrebbe non essere del tutto ‘avventuroso’ pre­sumere che nel selezionare proprio CTh 1, 1, 5 vi possa es­sere stato anche una sorta di velato ma autorevole invito ri­volto ai commissari teodosiani affinché, eventualmente, non trascurassero di affrontare per il futuro l’importante e resi­dua parte del vecchio ed impegnativo programma compila­torio.

Se davvero così fosse stato, fra le possibili operazioni funzionalmente utili alla cogenza occidentale dell’opera, sarebbe apparsa molto  opportuna alla fine del 438 la pub­blica e cerimoniale lettura della legge de redigendo codice[1] collocata nel sistema come 1, 1, 5. Essa di sicuro mostrava d’essere il testimone qualificato del fatto che la cancelleria costantinopolitana, ancora una volta – così come pretendevano entrambi i sovrani -, ave­va operato idealmente e materialmente «all’unisono con quella di Ravenna». Nel momento in cui essa aveva pensato e poi realizzato, un corpus normativo (da allora in avanti) tendenzialmente definitivo, i sovrani appartenenti alla stessa famiglia imperiale si producevano come autori di un’opera atta a rappresentare nella maniera migliore il nuovo ordinamento di tutti i Romani. La compilazione di Teodosio II mostrava d’es­sere in grado di soppiantare integralmente ogni precedente sistema normativo, escludendo (perché superfluo) tutto quanto non fosse stato in certa misura ivi considerato dal principe (o meglio, dai prìncipi) anche per il futuro.



[1] legge sulla redazione del codice

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