I Pastori delle comunità cattoliche apparivano i cardini obbligati per il tardo compilatore sullo specifico terreno della materia religiosa; e questo sia nelle numerose disposizioni concernenti le questioni legate alla struttura ecclesiale (CTh 16, 2), sia in quelle che avevano ad oggetto primario la catholica fides intesa nella sua profondità di credo religioso (CTh 16, 1).
Molto preziose sono le risultanze documentarie ambrosiane; di esse deve tenersi conto per l’indiscusso spessore culturale e spirituale dell’autore, nonché per il suo essere stato attivissimo protagonista di non poche vicende poi confluite in taluni testi del Teodosiano. Di grande interesse è l’epistula di Ambrogio del 386 diretta a Valentiniano II (efficacemente scritta proprio sull’onda della constitutio poi sistemata in CTh 16, 1, 4), nella quale si ritrova espressamente ribadita sia l’idea dell’ ormai consolidata estraneità dell’imperium al contenuto della catholica lex, sia la relativa ed esclusiva competenza del vescovo. Sembra che in essa si mantenesse anche la traccia di un provvedimento normativo più antico di Valentiniano I, nel quale il principe si sarebbe esplicitamente pronunciato come incompetente nelle questioni cattoliche disciplinari, e così pure nell’aspetto prettamente dogmatico; il legislatore, sia nelle vicende riguardanti la fede, sia in quelle puramente interne alla gerarchia della chiesa avrebbe stabilito che a giudicare dovesse essere necessariamente il vescovo. Sempre secondo il vescovo di Milano, proprio in virtù degli esclusivi diritti sacerdotali, non si sarebbe mai sentito che un vescovo potesse essere istruito da un laico, mai si sarebbe visto un laico chiarire l’argomento religioso ad un vescovo, dato che le stesse Scritture avrebbero sempre attestato che i vescovi «in causa… fidei» avrebbero normalmente dovuto giudicare l’imperatore, e non certo il contrario: non a caso, dunque, Valentiniano I si sarebbe a suo tempo dichiarato esplicitamente incompetente proprio sui vescovi. Quindi solo in chiesa, e solo tra vescovi, poteva discutersi su talune questioni di fede.
Queste affermazioni trovano conferma anche in altre lettere ambrosiane che, pur non trovando un immediato riscontro materiale in alcuno dei testi legislativi contemporanei, attestano le ‘normali’ idee di fondo che un grande vescovo di allora avrebbe avuto sui reciproci rapporti fra sacerdotium ed imperium quanto alla determinazione della catholica lex.
In un’altra epistula, pur essa indirizzata a Valentiniano II (a. 384), rinnovando la memoria della religiosità dell’imperatore Teodosio, Ambrogio avrebbe ‘ricordato’ al sovrano regnante come fosse cosa del tutto naturale la riserva al vescovo circa il merito delle questioni riguardanti la religione. Analogamente, qualche anno dopo, ma stavolta rivolgendosi al principe Teodosio, avrebbe ‘ricordato’ quale fosse il dovere principale di un sovrano, e con chi costui si dovesse per forza consultare in relazione agli affari religiosi: […] Si de causis pecuniariis comites tuos consulis, quanto magis in causa religionis sacerdotes domini aequum est consulas?.
Il vescovo non faceva che ribadire ufficialmente che l’imperatore piuttosto che essere al di sopra della chiesa cattolica vi appartenesse intimamente, cosi come era indiscutibile che fosse per qualsiasi altro suddito-fedele.
Dunque, poiché al principe sarebbe spettato “il civile” ed al vescovo sarebbe stato riservato “il religioso”, era tutto nella normalità di quegli anni il pensiero di Ambrogio nel ribadire in via definitiva l’incompetenza del sovrano “cause di fede”, e la riserva esclusiva di esse all’ufficio del vescovo.
Ulteriore conferma dell’orientamento di quegli anni proviene anche dalla Storia di Sozomeno: ancora una volta Valentiniano (nel caso di specie sollecitato da alcuni vescovi d’Oriente che pare avessero chiesto l’autorizzazione a riunirsi in sinodo) avrebbe risposto con estrema consapevolezza, proclamando la propria appartenenza alla parte laica dei catholici, ed affermando che proprio per tale motivo, non avrebbe avuto alcun diritto di immischiarsi in cose analoghe a quella che allora gli veniva sottoposta; piuttosto, sarebbe stato compito dei vescovi decidere autonomamente e, se conveniente, riunirsi a discutere de fide.
Tornando velocemente ai testi del Teodosiano, non è casuale che anche la terza costituzione del De fide catholica (la quale immediatamente seguiva il famoso editto di Tessalonica) avrebbe iniziato il proprio dettato rivolgendosi proprio ai vescovi; il disposto di CTh 16, 1, 3, e pertanto la presenza della constitutio del primo Teodosio proprio nel titolo ‘sulla fede’, sembra perfettamente coerente non solo con le altre e vicine leges collocate nel titolo, ma con la stessa rubrica. Così come ai compilatori era apparsa efficacissima in difesa della fede cattolica già la prima costituzione del titolo, anche la terza legge di CTh 16, 1 sarebbe stata preservata per gli stessi fini. Con la constitutio in 16, 1, 1 l‘imperium aveva inteso manifestarsi garante dei luoghi materiali in cui il culto della religione cristiana si sarebbe dovuto celebrare; così pure il successivo editto di Tessalonica, aveva mostrato tutta l’intenzione sovrana circa l’ecumenicità cogente che da allora in poi avrebbe dovuto avere la legge cristiana.
Anche in CTh 16, 1, 3, così come nella precedente c. 2, solo i sacerdotes sarebbero rimasti i riferimenti insostituibili per definire la correttezza del Credo dei sudditi-fedeli: Damaso e Pietro, i vescovi di Roma ed Alessandria, rappresentavano nella seconda constitutio del De fide catholica gli orientamenti che il legislatore riteneva opportuno indicare ai destinatari delle sue prescrizioni religiose. Egli, in virtù della esplicita riserva di competenza che l‘imperium non poteva che riconoscere e garantire al vescovo cattolico, proclamava il proprio sostanzioso rinvio a tale esclusiva ‘provincia’.
Il tardo legislatore prima, ed il codificatore teodosiano poi, pur ovviamente non disconoscendo l’autorità dell’imperium per taluni aspetti della vita quotidiana implicati dalla religiosità dei sudditi, ed in parte anche per quelli più intimi in qualche modo riconnessi alla formula del Credo, avrebbero giustamente rimesso per intero ai sacerdotes la determinazione sostanziale del Simbolo. Sia il primo sia il secondo Teodosio avrebbero limitato la loro intromissione nei ‘meccanismi’ della catholica lex a poche, generiche e semplici allusioni testuali alla disciplina apostolica ed alla dottrina evangelica. Essi pensavano che competesse ai vescovi e non al legislatore, la sostanza della fede, anche per il fatto che lo stesso principe era soggetto alla divina lex.
Pertanto non sono state prevalenti «esigenze di chiarezza e brevità» a motivare un discorso normativo così stringato come quello contenuto nelle leggi del sedicesimo titolo: discorso, appunto, che sui temi squisitamente di fede avrebbe consentito il solo e semplice rinvio al vescovo. Il richiamo inequivoco ai Pastori, perciò, non avrebbe potuto che essere l’unica strada allora percorribile al fine di identificare con disposizione legislativa la catholica lex. All’imperium rimaneva pur sempre l’incarico di garantire la tranquillità religiosa dei sudditi, e di garantirla in qualsiasi maniera; al sacerdotium, e quindi ai vescovi, sarebbe invece spettato di ‘riempire’ le prescrizioni più interne alla fede, quelle riguardanti il Simbolo da proclamare.
Se in CTh 16, 1, 2 erano stati solo il vescovo romano e quello alessandrino a sintetizzare la tesi religiosa che autoritativamente veniva suggerito ai sudditi, in CTh 16, 1, 3 sarebbero stati molti di più i sacerdotes ai quali il legislatore si sarebbe riferito. Undici vescovi, alcuni dei quali (non a caso) persino protagonisti del recente sinodo costantinopolitano, sarebbero occorsi per rappresentare agli occhi di tutti, quale fosse lo specifico Pastore con cui entrare in comunione al fine di non incorrere nella rigorosa e negativa valutazione espressa dalla legge[1]. Anziché riproporre nel testo della costituzione la formula del Credo, sia il più antico legislatore sia il compilatore teodosiano avrebbero preferito i vescovi quali riferimenti ortodossi per la professione di fede da imporre all’impero, e prima ancora a se stessi. Pur con la perfetta consapevolezza che il Simbolo professato dai sacerdotes Nettario, Timoteo, Pelagio, Diodoro, Amfilochio, Ottimo, Elladio, Otreio, Gregorio, Terennio, Marmario (così CTh 16, 1, 3), ed ugualmente quello professato da Pietro e Damaso (CTh 16, 1, 2), altro non era che la formula nicena, le cancellerie avrebbero optato per una scelta normativa ‘teologicamente soggettiva’.
A parte i cenni teologici alle persone della Trinità contenuti in CTh 16, 1, 2 e 16, 1, 3, le disposizioni legislative rappresentate sulla Christiana lex nel titolo De fide cattolica sarebbero rimaste strettamente agganciate alle figure pastorali dell’epoca.
Guardando altrove nel Teodosiano, ancora altri vescovi sarebbero poi tornati utili agli officia del Palazzo nella concreta ricerca di orientamenti non ambigui in tema di correttezza del Simbolo.
Pure nell’ultima constitutio del titolo 16, 4, sarebbe stata la comunione con i sacerdoti Arsaci, Teofilo e Porfirio a determinare la posizione religiosa di coloro che eventualmente si fossero mostrati disputatori delle questioni sulla fede. Questa legge avrebbe distinto all’interno di quei gruppi catholici che, appunto, sarebbero potuti apparire disputatori de fide. Grazie all’adesione dei singoli cittadini al Credo professato da ciascuno dei vescovi che si elencavano, i pubblici funzionari sarebbero stati in grado di individuare coloro da considerare ‘fuori’ dalla chiesa, con tutte le pesanti conseguenze del caso; anche per l‘imperium il dissenso dei sudditi-fedeli dalla lex sacra sostenuta dal proprio Pastore diveniva inammissibile. Riunirsi a discutere di fede negli spazi estranei alle chiesa, pure da parte di coloro che non esplicitamente erano stati dichiarati eretici, avrebbe significato porsi fuori dalla legge cristiana, e di conseguenza fuori dalla perfetta osservanza del nuovo ius principale e fuori dalla possibilità di verifica del Simbolo operata dal vescovo ortodosso.
[1] Hos ad optinendas catholicas ecclesias ex communione et consortio propabilium sacerdotum oportebit admitti (Cth 16, 1, 3).