Le XII tavole sono un corpo di leggi compilato nel 451 – 450 a.C. dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto privato e pubblico. Rappresentano una tra le prime codificazioni del diritto romano. Secondo la versione tradizionale tramandata dagli storici antichi la creazione di un codice scritto è stata voluta dai plebei nel quadro delle loro lotte con i patrizi per limitare il loro arbitrio nell’amministrazione della giustizia.
Le XII tavole sancirono il principio secondo cui una condanna a morte non può essere inflitta a un cittadino romano se non a seguito di giudizio dell’assemblea centuria.
Esse sancirono altresì che per tutte le cause in cui era in gioco la vita o la morte di un cittadino (de capite civis) era in grado di giudicare esclusivamente il massimo comizio di tutto il popolo. Con tale misura fu sottratta ai comitia curiata la cognizione dei delitti capitali, che divenne di esclusiva competenza del comitatus maximus: l’assemblea delle centurie.
Le XII tavole facevano poi menzione dei quaestores parricidi, fin dall’antichità investiti dell’indagine sulla responsabilità dei rei di omicidio, la cui sfera di attività riguardava la persecuzione di crimini punibili con pena capitale. Venne affidato loro il compito di:
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istruire il processo
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promuovere l’accusa per il giudizio popolare
Alla norma de capite civis, nelle XII tavole faceva riscontro l’altra norma che vietava di mettere a morte un cittadino che non fosse stato condannato in processo. Essa mirava a porre un freno ai tribunali rivoluzionari della plebe che più volte, nel V secolo, si arrogarono la facoltà di perseguire, anche con la pena capitale, gli esponenti della classe patrizia responsabili della violazione delle leges sacratae.
L’autore dell’infrazione può ora essere chiamato dai tribuni a rispondere del proprio operato dinanzi al concilium plebis solo se per la violazione è comminata una pena diversa da quella di morte.
Se il fatto è punibile con pena capitale deve necessariamente farsi luogo al processo comiziale in cui il tribuno opera in veste di inquirente e accusatore.
Il giudizio intentato davanti al popolo sull’accusa dei quaestores di era di primo e unico grado, come quello intentato dai tribuni della plebe. Le testimonianze indicano che il processo davanti alle assemblee popolari non era preceduto né da un giudizio né da una condanna. Il magistrato operava dal principio alla fine in veste di accusatore, limitandosi a condurre l’istruttoria e a proporre la pena ai comizi. L’unico e vero giudizio era quello del popolo.
È inoltre oscuro l’ambito d’applicazione del processo comiziale.
Kunkel ha messo in dubbio che i comizi centuriati giudicassero anche in materia di reati comuni, restringendo la loro competenza ai soli reati di indole politica.
Secondo l’autore i reati comuni non sarebbero stati assoggettati a persecuzione pubblica, ma avrebbero dato luogo a un procedimento privato introdotto mediante legis actio sacramento dinanzi un collegio giudicante presieduto o composto dai quaestores parricidi, in seguito alla cui pronuncia il colpevole era consegnato alla vendetta della vittima o dei suoi parenti.
Kunkel è in questo modo indotto a svalutare argomentazioni contrastanti con la sua tesi, negando l’identità dei quaestores parricidi, svalutando esempi di antichi processi fornitici da antichi scrittori. Difatti, di un intervento dei comitia in materia di reati comuni si rinvengono numerose tracce nel teatro di Plauto, dai cui scritti si desume che la competenza dell’assemblea delle centurie non fosse limitata ai soli crimini politici.