La rilevanza che l’equità comincia ad assumere nell’ordinamento romano si vede dal fatto che i giureconsulti si trovano a usare nelle loro soluzioni principi giuridici non sempre presenti nell’ordinamento, specie nello ius civile. I giuristi della prima Repubblica formulavano un principio normativo generalizzato (originato dalla determinazione dello ius civile), ma nell’ultima Repubblica i giuristi operano nella soluzione di casi in cui in concreto si determina l’equità (da intendersi come soluzione del caso singolo, ma che tende a generalizzarsi in una serie di principi di cui è intessuto l’ordinamento, sia attraverso l’interpretatio sia con lo ius honorarium). Questi principi prevedono però la valutazione critica del tecnico: quindi l’equità si oggetti vizza nell’editto del pretore, rimanendo però elemento dell’interpretatio. Ora però per tutta l’età repubblicana, l’interpretatio del magistrato per acquisire effettività deve esser tradotta in tutela processuale da parte del pretore o in norma nell’editto (anche se annua). Ciò è posto in evidenza da Cicero che distingue 2 aspetti dell’attività del giurista (pag 14, l.): il vero ruolo della giurisprudenza è da ricercarsi in un compito dichiaratamente creativo (cioè cogliendo gli intimi nessi del diritto nel complesso dei suoi principi e non dedurli da sistemi di norme preesistenti, sia che provengano dalle XII tavole o dall’editto). Giuristi come Rufo fecero ciò. In conclusione allora, l’equità è un elemento dell’ordinamento giuridico, in quanto fondamento del ius honorarium (anche se la sua determinazione proviene sostanzialmente dai giureconsulti, ossia i tecnici del diritto).