Sotto la vigenza del codice del 1988 si è posto più volte il problema relativo all’ampiezza dei poteri che il giudice può esercitare di ufficio. In particolare, si è messa in dubbio la compatibilità di tali poteri con la scelta di un sistema tendenzialmente accusatorio e con il principio di terzietà ed imparzialità del giudice.
Con riferimento al caso in cui il giudice si trovi a supplire ad inerzie della pubblica accusa vi è stata una prima pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione nel 1992, confermata l’anno successivo da una sentenza della Corte costituzionale. Nel dicembre del 2006 le Sezioni unite sono tornate sulla questione, ribadendo sostanzialmente la pronuncia precedente, secondo la quale:
- lo scopo dell’art. 507 (ammissione di nuove prove) è quello di consentire al giudice che non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone di ammettere le prove che gli consentono un giudizio più aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire;
- l’obiezione in base alla quale l’acquisizione di ufficio delle prove farebbe venire meno la terzietà del giudice costituisce un equivoco: la Cassazione, infatti, si chiede perché mai non dovrebbe essere considerato terzo un giudice scrupoloso che intende giudicare a ragion veduta e non con informazioni insufficienti. Un potere del genere, da esercitare solo in caso di assoluta necessità, non è un residuo del principio inquisitorio, bensì vale a fondare un processo veramente giusto ;
- il potere integrativo del giudice non nuoce alla difesa e non mina il principio di parità tra le parti, anzitutto perché tale potere è conferito sia con riferimento alle lacune dell’accusa sia con riguardo a quelle della difesa e poi perché si inserisce in un sistema caratterizzata dall’obbligatorietà dell’azione penale, che impone una costante verifica dell’esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico ministero.