La valutazione degli elementi di prova costituisce per le parti quell’onere sostanziale che si esplica nel loro potere di argomentare. La medesima attività rappresenta per il giudice un vero e proprio dovere: questo, infatti, valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati (art. 192 co. 1). Il giudice espone i motivi del suo convincimento indicando le prove poste a base della decisione ed enunciando le ragioni della loro attendibilità e le ragioni della non attendibilità delle prove contrarie (art. 546 co. 1 lett. e). La valutazione delle prove, in particolare, costituisce un’attività :
- legale, perché si esercita su prove legittimamente acquisite (art. 546): soltanto quanto viene validamente acquisito può essere valutato a fini decisori;
- razionale, perché implica l’obbligo di giustificare la decisione secondo criteri di ragionevolezza e nel rispetto delle regole della logica, della scienza e dell’esperienza corrente.
 L’art. 192 co. 1, con l’espressione risultato probatorio , indica chiaramente l’esito di un percorso argomentativo: si riferisce non ad un quid esistente sul piano materiale, ma al punto di approdo di un’operazione mentale applicata agli elementi precedentemente raccolti. Non vi sono pertanto dati di fatto che siano accettabili di per sé, essendo in ogni caso necessaria quell’attività raziocinante del giudice che serve ad accertare l’attendibilità della dichiarazione e la credibilità della fonte. L’art. 192 e l’art. 546 co. 1 lett. e, in particolare, diventano complementari nel descrivere il percorso argomentativo della decisione del giudice:
- l’art. 192 richiede l’esposizione dei criteri utilizzati nella valutazione degli elementi di prova, singolarmente presi e nel loro complesso;
- l’art. 546 co. 1 lett. e, attraverso il prescritto vaglio delle opposte ragioni, recepisce e traduce l’esigenza del confronto tra le ipotesi ricostruttive del fatto che sono state elaborate.
Il ragionamento del giudice, chiaramente, non ha il carattere dell’inconfutabilità logica, bensì quello dell’accettabilità razionale. Connaturale a questa forma di razionalità è l’obbligo di motivazione, nella quale il giudice è tenuto a dar conto delle scelte operate: soltanto attraverso la motivazione, infatti, è possibile un controllo sul ragionamento del giudice.
 L’art. 546 co. 1 lett. e richiede che, nel giustificare le proprie scelte in ordine alle prove che stanno alla base del suo convincimento, il giudice dia conto anche dell’eventuale esistenza di prove contrastanti e delle ragioni per cui egli le ha ritenute non convincenti: il giudice, infatti, non può limitarsi a scegliere un’ipotesi ricostruttiva del fatto e ad enunciare le prove che la confermano, ma deve anche indicare le ragioni che lo hanno portato ad escludere le ipotesi antagoniste. La struttura della motivazione, quindi, assume un carattere dialogico, nel senso che essa deve dar conto del conflitto sulle prove e di quello sulle ipotesi.
 Esiste un nesso inscindibile tra giurisdizione e motivazione. Questo emerge dall’art. 111 co. 6 Cost., secondo il quale tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati . La motivazione, quindi, è una componente strutturale necessaria dei provvedimenti del giudice e costituisce una conquista del nostro sistema giuridico.
 Completezza della motivazione
Il requisito della completezza della motivazione deve riguardare sia la decisione in diritto sia quella in fatto. Se la prima motivazione non suscita particolari problemi, la seconda, al contrario, viene spesso trascurata, come se si volesse sottolineare che tale aspetto ha minore importanza. A detta di Tonini, invece, una corretta giustificazione della ricostruzione del fatto costituisce la premessa per un’esatta applicazione della norma.
Con riferimento alla motivazione in fatto, comunque, occorre sottolineare che non risulta sufficiente che il giudice dica genericamente di aver utilizzato le prove assunte nel processo, essendo invece necessario che indichi anche il loro contenuto. L’esposizione delle prove, tuttavia, non basta ad esaurire il dovere di motivare in fatto: motivare, infatti, significa rendere esplicito anche il canone di argomentazione utilizzato per arrivare all’affermazione della sussistenza (o della insussistenza) del fatto imputato .