Il legislatore definisce con la prima delle disposizioni generali (art. 187), l’oggetto della prova. Ciò è per evitare che l’attività probatoria possa indirizzarsi verso qualsiasi verità storica, circoscrivendone invece la destinazione verso temi coessenziali all’oggetto stesso del procedimento. Dalla formulazione enfatica e per certi versi fuorviante del vecchio codice si è passati a definire l’oggetto della prova facendo riferimento in sostanza al tema della decisione, e attraverso tale riferimento si è fissato il requisito della pertinenza come criterio-guida per lo sviluppo della attività probatoria, ma anche per definire i suoi confini.
Di qui l’elencazione dei fatti suscettibili di diventare oggetto dell’accertamento probatorio, quali emergono dal comma 1 dell’art. 187 (concernenti l’imputazione, la punibilità dell’imputato, la determinazione della pena o della misura di sicurezza). Quando vi sia costituzione di parte civile, il tema probatorio è destinato ad allargarsi fino ad includere le questioni derivanti dall’esercizio dell’azione civile in sede penale.
Nuova risulta la prevista estensione dell’oggetto della prova anche ai fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali.
Va ricordata la distinzione tra prove dirette e prove indirette a seconda che le stesse si riferiscano o no immediatamente al thema probandum principale, quale risulta dall’art. 187. Sono dirette quelle che hanno per oggetto il fatto da provare, sono indirette quelle che provano un fatto dal quale il giudice può risalire, con una operazione induttiva, al fatto da provare.
Le prove indirette si dicono anche indiziarie (e tali sono gli indizi cui si riferisce l’art. 192 comma 2). Alla distinzione prove dirette – prove indirette, si fa anche corrispondere quella tra prove storiche e prove critiche, ma a ben vedere le classificazioni non possono considerarsi coincidenti, attesa la eterogeneità dei criteri che le ispirano (esse invece possono dar luogo a differenti combinazioni).
Prove atipiche e garanzie per la libertà morale della persona
Quanto alla dibattuta questione delle prove atipiche (o innominate), il codice ha operato una scelta intermedia: si è deciso di non dettare alcuna aprioristica preclusione nei confronti di prove non disciplinate dalla legge, ma di trasferire in capo al giudice, caso per caso, il compito di un vaglio preliminare circa l’ammissibilità di tali prove. In ogni caso comunque non dovrà trattarsi di prove vietate dalla legge.
Quando si ha a che fare con una prova non riconducibile ad alcuna delle figure probatorie previste dalla legge, spetta al giudice il potere di decidere se la medesima possa entrare in sede processuale sulla base di due parametri: la sua idoneità ad accertare i fatti e la sua inidoneità a pregiudicare la libertà morale della persona. Cioè nessuna prova potrà essere ammessa, né tanto meno assunta, quando la stessa presupponga il ricorso a metodi tali da vanificare o compromettere la normale attitudine della persona alla autodeterminazione e all’esercizio delle facoltà mnemoniche e valutative.
Diritto alla prova e criteri di ammissione
La disciplina delle modalità di ammissione della prova è uno dei terreni sui quali più decisamente è destinato a incidere il nuovo modello del processo di parti, in coerenza con il suo canone di fondo per cui il giudice, di regola, deve decidere iuxta alligata er provata partium. Corollario di questa impostazione è il riconoscimento nei confronti delle parti di un vero e proprio diritto alla prova, che infatti il codice esplicitamente sancisce.
L’art. 190 non esita ad affermare il principio per cui le prove sono ammesse a richiesta di parte, e su tale base impone al giudice di provvedere senza ritardo con ordinanza alla delibazione di ammissibilità che gli è demandata. C’è un duplice livello su cui si articola il diritto alla prova. Innanzitutto si presenta il diritto di richiedere l’ammissione di determinate prove, salve le ipotesi in cui al giudice è consentito intervenire ex officio, che si traduce in un onere di acquisizione al processo delle stesse.
E poi si presenta il diritto ad ottenere la prova richiesta, entro i limiti in cui la medesima possa essere ammessa, o ad ottenere una tempestiva pronuncia sulla richiesta ritualmente formulata. Tra le concrete specificazioni del diritto alla prova riconosciuto alle parti vanno ricordate l’attribuzione all’imputato di del diritto di ottenere l’ammissione di prove a discarico “su fatti costituenti oggetto delle prove a carico”, e al pm il corrispondente diritto in ordine alle prove a carico “sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico”.
In queste ipotesi il legislatore ha voluto attribuire un particolare risalto al cd diritto di controprova, al punto di prevedere uno specifico motivo di ricorso per cassazione proprio con riferimento alla “mancata assunzione di una prova decisiva”, ancorché richiesta dalla parte (art. 606 comma 1 lett. d).
Per quel che concerne i criteri della pronuncia sulla ammissibilità della prova, il giudice è vincolato da un duplice ordine di parametri derivanti dall’art. 190 comma 1: egli dovrà escludere innanzitutto le prove vietate dalla legge, poi quelle che risultino in concreto, e manifestamente, “superflue” o “irrilevanti”.
La verifica sulla rilevanza della prova si risolve in un giudizio circa la sua riconducibilità all’ambito oggettivo delineato dall’art. 187, la successiva verifica sulla non superfluità comporta un giudizio potenziale sulla sua utilità, quindi alla sua attitudine a contribuire in termini positivi all’arricchimento della piattaforma su cui dovrà formarsi il convincimento del giudice.
Il giudice si attiene ai medesimi criteri anche nel provvedere alla eventuale revoca dei provvedimenti di ammissione della prova, una volta “sentite le parti in contraddittorio”.
La norma dell’art. 190-bis presenta carattere derogatorio, e opera solo nei procedimenti di criminalità organizzata; dispone che nel corso degli stessi, quando sia richiesto l’esame di un testimone, o di uno dei soggetti di cui all’art. 210, che abbiano già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o di dibattimento, purchè in contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime dovranno essere utilizzate, ovvero all’interno di altro procedimento, abbiano reso dichiarazioni i cui verbali siano stati acquisiti ai sensi dell’art. 238, l’esame di tali soggetti è ammesso solo se riguarda “fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni”, ovvero quando il giudice o una delle parti lo ritengano “necessario sulla base di specifiche esigenze”. Questa disciplina è estesa anche all’esame del testimone minore di sedici anni nei processi per i delitti indicati dal comma 1-bis dello stesso art. 190-bi s.
L’area dei principi espressi dall’art. 190 non deve ritenersi circoscritta all’ambito della fase dibattimentale. Essi risultano di per sé applicabili nell’intero arco del procedimento, quindi anche a fasi anteriori a quella del dibattimento. È inoltre indubbio che tali principi si applichino in sede di incidente probatorio e in sede di udienza preliminare.
Senza dubbio però è nella fase dibattimentale che tali principi trovano applicazione con maggiore intensità e ampiezza. Tuttavia proprio in questa fase sono collocate le più vistose eccezioni al principio dell’iniziativa di parte sul terreno probatorio, accanto a quelle stabilite in via generale nell’ambito della regolamentazione dei singoli mezzi di prova. Si tratta delle diverse ipotesi in cui il codice configura determinati poteri di iniziativa probatoria come esperibili ex officio, attribuendoli ora al presidente del collegio, ora al giudice del dibattimento, talvolta in base al criterio della assoluta necessità.
Prove illegittimamente acquisite e sanzione di inutilizzabilità
L’art. 191 sancisce la regola della non utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, cioè ammesse o assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge. La categoria della inutilizzabilità è intesa sia come vizio, che come sanzione processuale predisposta in via generale nel caso di violazione dei divieti ex lege, distinguendosi dalla nullità che invece viene riservata ai vizi di forma degli atti per i quali è espressamente comminata (art. 177). Diversamente da quanto accade nei casi di nullità, l’inutilizzabilità non ammette sanatorie, in quanto modellata sul regime previsto per le nullità assolute (art. 179).
L’inutilizzabilità della prova è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (art. 191 comma 2). L’art. 191 opera in ogni ipotesi di inosservanza di un divieto sancito dalla legge processuale in materia di ammissione o acquisizione probatoria, comprese le ipotesi in cui il divieto, per sua natura, possa emergere solo ex post rispetto al momento acquisitivo.
L’art. 191 si configura da un lato come norma generale di previsione della sanzione dell’inutilizzabilità, destinata a combinarsi con tutte le svariate disposizioni che, pur sancendo un divieto probatorio, non prevedono alcuna sanzione per l’ipotesi della sua trasgressione (comma 1); dall’altro come norma generale di riferimento per il regime normativo del vizio della inutilizzabilità, destinata a trovare applicazione tutte le volte in cui singole disposizioni dichiarino tout court inutilizzabili determinati atti probatori, oltrechè nel caso in cui essa venga esplicitamente richiamata (comma 2).