L’attuale disciplina dell’interrogatorio, contenuta negli articoli 64 e 65 del c.p.p., è una chiara dimostrazione del superamento dei canoni tipici del processo inquisitorio. All’interrogato, infatti, devono essere riconosciute una serie di libertà.

La libertà fisica, di cui ci parla l’articolo 64 comma 1 del c.p.p. che dispone: “la persona interrogata interviene libera all’interrogatorio, salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenze”. La libertà fisica viene considerata un presupposto della libertà morale.

La libertà morale intesa come libertà di ragionare senza condizionamenti, di non essere ingannati nel corso dell’interrogatorio, di potere parlare in piena autonomia.

La libertà morale trova il suo fondamento costituzionale nella libertà di autodeterminazione, costituzionalmente protetta dall’art 2 della Costituzione.

In base all’art 2 della Costituzione, l’articolo 64 comma 2 del c.p.p. riconosce alla persona sottoposta ad interrogatorio il diritto di non essere sottoposta a metodi o tecniche, utilizzate con lo scopo di influire sulla sua capacità di valutare i fatti (si pensi a tecniche pseudo-scientifiche come l’ipnosi o la narcoanalisi; agli interrogatori tendenziosi: in cui all’imputato vengono promesse false impunità o vengono proposte domanda a trabocchetto; al c.d. terzo grado: in cui vengono poste in essere pratiche violente per indurre l’imputato a confessare.

Anche l’uso del lie detector, la c.d. macchina della verità, è vietato in quanto sottopone l’interrogato ad una pressione psicologica che è in contrasto con la libertà morale costituzionalmente protetta).

Oltre alla Costituzione anche il diritto internazionale garantisce la libertà morale: si pensi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta pene e trattamenti inumani); alla Convenzione internazionale contro la tortura (definita dall’art 1 come quell’insieme di atti mediante i quali viene inflitto dolore ad una persona per ottenere la sua confessione).

 

Il diritto di autodifesa, la presunzione d’innocenza e il nemo tenetur se detegere

Uno dei diritti fondamentali che viene riconosciuto all’imputato, non solo durante l’interrogatorio ma, più in generale, durante l’intero procedimento penale è il diritto all’autodifesa. Tale diritto può manifestarsi in due modi.

Il diritto all’autodifesa attivo che trova attuazione in tutti quei casi in cui attivamente l’imputato interviene nel processo per discolparsi. Al fine di garantire il diritto attivo all’autodifesa, la legge prevede la possibilità dell’imputato di interloquire con il giudice e con l’accusa, non solo in sede di testimonianza ma anche al di fuori (con la conseguente non applicazione degli obblighi di verità che caratterizzano la testimonianza). La dottrina, di conseguenza, si è domandata se bisogna riconoscere all’imputato un vero e proprio diritto al mendacio (cioè il diritto di mentire):

Mentre era in vigore il precedente codice di procedura penale (Codice Rocco): la dottrina, affrontando il tema del mendacio, aveva concluso che l’imputato ha l’onere di dire la verità, nel senso che eventuali menzogne verranno utilizzate come prove su cui il giudice andrà a formare la propria decisione.

Attualmente la dottrina maggioritaria ritiene che l’esercizio del diritto attivo all’autodifesa, implica anche la facoltà dell’imputato di mentire. Non consentire all’imputato di mentire, infatti, implicherebbe l’imposizione di un obbligo di verità, che legittimerebbe l’applicazione degli strumenti coattivi volti ad ottenere la verità stessa.

Per questo motivo, la dottrina e la giurisprudenza, sono concordi nel sostenere che la facoltà di mentire trova una tutela costituzionale del diritto attivo all’autodifesa, protetto dall’articolo 24 della Costituzione.

La dottrina ne ha concluso che qualora la scelta di mentire avesse come scopo di perseguire un’apprezzabile finalità di difesa, la condotta mendace dell’interrogato non sarebbe punibile, in quanto si applicherebbe la scriminante dell’esercizio di un diritto costituzionale (il diritto alla difesa di cui all’art 24) richiamata dall’articolo 51 del c.p.

Per quanto riguarda i limiti all’esercizio di questa facoltà di mentire:

-)I limiti interni: consistono nella necessaria sussistenza di un collegamento fra la menzogna e lo scopo difensivo che vuol essere perseguito attraverso essa.

-)I limiti esterni: impongono che la menzogna non vada a ledere altri valori di rango costituzionale (ad es. il diritto costituzionale alla rapida conclusione del procedimento penale). Il problema è che questi scontri si verificano di continuo per questo, sia la dottrina che la giurisprudenza, hanno concluso che il diritto all’autodifesa, essendo un diritto collocato al vertice dei valori costituzionali, deve considerarsi prevalente rispetto alla maggior parte degli altri principi (fra cui anche quello che vuole una rapida conclusione del procedimento) rendendo di fatto legittima la menzogna anche in caso di violazione di questi ultimi.

Il diritto all’autodifesa passivo trova la sua massima rappresentazione nel principio del nemo tenetur se detegere che tradotto significa, nessuno può essere costretto ad accusare se stesso.

Il diritto all’autodifesa passiva può trovare attuazione attraverso l’esercizio di diverse facoltà. Rimanendo in silenzio (la c.d. recusatio respondendi) dinanzi alle singole domande o a tutte le domande poste durante l’interrogatorio (questa facoltà può essere esercitata sia nella fase delle indagini preliminari, in cui l’imputato può rifiutarsi di rispondere alle domande del pubblico ministero, sia nella fase dibattimentale ) ovvero rifiutando di essere interrogati dal giudice o dal pubblico ministero.

Questa facoltà non può essere esercitata nella fase delle indagini preliminari, l’imputato non può sottrarsi completamente all’interrogatorio del P.M., mentre può essere esercitata nella fase del dibattimento, in cui l’imputato potrà rifiutarsi di sottoporti all’interrogatorio, alla cui assunzione si può procedere solamente con il suo consenso.

Il diritto a non autoincriminarsi viene, poi, riconosciuto a tutti coloro che prendono parte al procedimento, non rivestendo la qualità di indagato o di imputato. Esso implica che nessuno di questi soggetti può essere costretto a fornire risposte che potrebbero portare alla propria incriminazione .

Per questo motivo l’art 63 del c.p.p. dispone al 1° comma che se un testimone, una persona informata sui fatti, o un altro soggetto che partecipa al procedimento in una veste diversa da quella di imputato, rende dichiarazioni che contengono indizi che potrebbero configurare un reato a suo carico, l’autorità procedente deve interrompete l’esame, avvertendo il soggetto che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte delle indagini.

Il 2° comma dell’articolo 63 continua precisando che queste dichiarazioni saranno inutilizzabili erga omnes, dal momento che solo un imputato o un indagato può fornire delle dichiarazioni che possano confermare gli elementi del reato di cui è sospettato/imputato.

La possibilità dell’imputato di non collaborare è resa possibile da un altro principio fondamentale: la presunzione di innocenza. Tale principio ha un’immediata influenza sul regime delle prove. L’onere della prova, infatti, grava sul pubblico ministero che: “E’ tenuto a dimostrare tutti gli elementi della fattispecie criminosa, al di là di ogni ragionevole dubbio”.