Il principio della domanda è espresso dall’art 99 c.p.c. il quale recita che chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve proporre domanda. Tale principio in realtà non fa altro che specificare il precetto contenuto nell’art 24 cost. secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Le ragioni che hanno indotto il legislatore ad affermare e a ribadire il principio della domanda sono essenzialmente due:
1) la prima è che il principio della domanda è lo strumento migliore per garantire che il giudice sia terzo di fronte alla controversia o affare giudiziario
2) la seconda è data dal fatto che essendo l’azione il mezzo per far valere determinate situazioni riconosciute e tutelate dall’ordinamento sostanziale il monopolio in ordine al potere di tutelarle in giudizio è la logica conseguenza di tale riconoscimento
Chiarite le ragioni che sono alla base del principio della domanda risulta evidente che eccezioni a tale principio sono in genere altamente sconsigliabili perché potrebbero attentare all’imparzialità del giudice. Per questo motivo le eccezioni al principio della domanda sono nel nostro ordinamento assai rare (ad es. dichiarazione di fallimento d’ufficio). Esse sono poi impossibili quando verrebbero a compromettere situazioni giuridiche sostanziali che l’ordinamento riconosce in modo pieno ai soggetti (i cd. Diritti disponibili) in quanto la disponibilità delle stesse non può non comprendere anche la disponibilità processuale. Una possibilità di trovare un contemperamento fra opposte esigenze si ha tutte le volte in cui fermo restando il principio secondo cui il giudice non può iniziare il processo d’ufficio si cerca di allargare la sfera dei soggetti che sono capaci di proporre la domanda (si pensi ad es. al potere d’azione del P.M. ex art 2907 c.c.),ovvero di allargare la sfera dei soggetti legittimati all’azione (si pensi ad es. ad alcuni casi di nullità del matrimonio previsti dagli art 117, 118 c.c.) o infine di costruire l’azione come un potere pubblico riconosciuto ad un soggetto in quanto membro di una collettività(si pensi ad es. alle cd. Azioni popolari o alla disciplina urbanistica).
Si tratta in questi casi di situazioni sostanziali che non interessano un solo soggetto particolare ma la collettività (i cd. Diritti indisponibili). Al principio della domanda deve essere collegato quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato espresso dall’art 112 c.p.c. il quale recita che il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Secondo il combinato disposto di tali articoli non solo le parti possono scegliere se adire o no il magistrato ma hanno anche il monopolio in ordine alla determinazione del tema decidendum, ossia dell’oggetto sul quale il giudice dovrà decidere. In altre parole le parti hanno il potere di condizionare il giudice sia inizialmente decidendo se adire o no il magistrato sia successivamente determinando su che cosa il giudice dovrà giudicare. Nel proporre la domanda giudiziale un soggetto espone un avvenimento o episodio di vita da ricondurre a una o più disposizioni di legge per ricavarne conseguenze favorevoli. Ci si è chiesti se il giudice sia vincolato alle richieste delle parti sia in relazione al fatto, sia in relazione alle norme invocate, sia infine in relazione alle conseguenze giuridiche dedotte.
Al riguardo va innanzitutto precisato che esistono nei vari codici norme che prevedono l’obbligo del giudice di giudicare anche quando le parti non abbiano indicato le norme giuridiche da loro ritenute applicabili. In linea generale va poi detto che mentre il giudice non è vincolato alla prospettazione giuridica proposta dalle parti (le cd. Norme invocate) è invece vincolato alla prospettazione dell’episodio di vita cioè del fatto. Poiché tuttavia le parti nell’esporre il fatto spesso lo arricchiscono di particolari che servono ad individuarlo e specificarlo bisogna fare una distinzione tra Fatti principali che sono quelli che integrano il suo nucleo essenziale e Fatti secondari che sono quelli che integrano le circostanze che arricchiscono, precisano e chiariscono il fatto principale senza tuttavia incidere sul suo nucleo essenziale. Il vincolo del giudice riguarda la cd. Attività assertiva cioè l’inserimento di fatti nel processo e non invece la cd. Attività asseverativa cioè l’attività svolta dalle parti diretta a fornire al giudice elementi di convincimento in altri termini l’acquisizione del materiale probatorio.
Nell’ambito dell’attività assertiva poi mentre è sicuro il vincolo del giudice quanto ai fatti principali non è altrettanto sicuro che tale vincolo si estenda anche ai fatti secondari. Appare comunque fondamentale al riguardo il potere del giudice nel corso della prima udienza di chiedere alle parti sulla base dei fatti allegati i chiarimenti necessari e di indicare le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. Attraverso l’uso accorto di questo potere che viene di regola esercitato in sede di interrogatorio libero il giudice può ottenere quelle integrazioni nella narrazione dell’episodio che siano indispensabili (fatti principali) o utili (fatti secondari) per il giudizio.
Per quanto riguarda poi la possibilità delle parti di modificare nel corso del processo le domande, eccezioni e conclusioni già formulate va detto che le nuove norme consentono di allargare i fatti da loro ritenuti rilevanti fino alla prima udienza di trattazione e comunque non oltre il termine concesso all’uopo dal giudice nonché la possibilità delle parti di produrre e articolare i mezzi di prova non oltre la successiva udienza o quella ancora successiva ai sensi dell’art 184 c.p.c. Il nuovo testo dell’art 183 c.p.c. prevede infatti che entrambe le parti possono modificare e precisare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate. In linea di principio va detto che vi è una modificazione quando la parte ha bisogno di introdurre ulteriori fatti storici per supportare le sue richieste.
Alla determinazione del voluto concorre non solo l’attore ma anche il convenuto allorchè questi introduca nel processo altri fatti che servono a togliere in tutto o in parte valore a quelli dedotti dall’attore. In questi casi infatti il giudice per stabilire il tema della decisione deva guardare non solo all’attività assertiva svolta dall’attore ma anche a quella del convenuto. Al riguardo la seconda parte dell’art 112 c.p.c. dispone che il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti. Così com’è formulato tale articolo sembrerebbe dire che normalmente le eccezioni possono essere rilevate d’ufficio tranne il caso in cui la legge non preveda espressamente la necessità dell’eccezione della parte. In realtà se si considera la disciplina positiva si vede che non possono essere rilevate d’ufficio ad es. la prescrizione, la compensazione ,o il beneficio della preventiva escussione in caso di fideiussione.
Negli altri casi in cui la parte avrebbe un potere da far valere autonomamente nel processo (ad es. novazione, rinuncia al diritto, risoluzione consensuale, condizione, remissione) non è facile dire se sia o meno consentito il rilievo dell’eccezione d’ufficio e la soluzione del caso va ricercata di volta in volta. In ogni caso va precisato che il rilievo dell’eccezione d’ufficio è possibile solo quando risultino acquisiti agli atti del processo i fatti storici su cui essa è basata. In precedenza si è detto che il giudice non è vincolato alle parti nella individuazione ed interpretazione delle norme applicabili. A fondamento di tale regola vi è l’esigenza di garantire la parità di trattamento assicurando che colui che individua e applica le norme non è il soggetto interessato ma un soggetto imparziale. Al riguardo va però precisato che la libertà di individuare ed interpretare la norma non comporta sempre anche la libertà di individuare le conseguenze giuridiche. Di regola se la parte ha chiesto sulla base di un determinato fatto il riconoscimento di determinate conseguenze e il giudice invece ritiene che lo stesso fatto giustifichi altre conseguenze egli non può sostituirsi alla parte nella derivazione delle diverse conseguenze tranne il caso in cui si tratti di conseguenze dichiarabili d’ufficio (ad es la nullità del contratto) o di conseguenze dedotte in via alternativa dalla stessa fattispecie (ad es. nella vendita di cosa gravata da oneri o la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo).
Allo stesso modo se la parte ha posto a base dell’effetto giuridico un determinato fatto e il giudice invece ritiene che tale effetto sia giustificato da altro fatto pure risultante dal processo egli non può sostituire l’uno all’altro fatto tranne il caso in cui l’effetto sia dichiarabile d’ufficio (ad es l’attore chiede l’annullamento del contratto per violenza e il giudice ritiene che il contratto sia annullabile per errore. Per concludere vanno chiarite le conseguenze che derivano dal mancato rispetto da parte del giudice dei vincoli derivanti dal principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. In teoria sono possibili due casi:
1) se il giudice pronuncia senza tener conto di tutte le richieste delle parti oppure modificandole si dice che vi è un difetto di pronuncia
2) se il giudice pronuncia senza che siano state fatte apposite istanze si dice che vi è un eccesso di pronuncia cd. Ultrapetizione.
In entrambe le ipotesi il provvedimento è viziato ma mentre nel caso di difetto di pronuncia sia la dottrina che la giurisprudenza ritengono che la pronuncia non esiste e che quindi le parti possono riproporre la domanda in un successivo giudizio nel caso di ultrapetizione le parti se vogliono evitare il passaggio in giudicato della sentenza devono proporre impugnazione.