L’effetto devolutivo dell’appello concerne il problema se l’ambito della cognizione del giudice d’appello coincida o meno con l’ambito della cognizione del giudice di primo grado (se tutte le questioni che il giudice di primo grado ha conosciuto e deciso devono essere conosciute e decise anche dal giudice d’appello).

L’art. 342.1 c.p.c. prevede che l’appello vada proposto con citazione. Deve contenere:
–          L’esposizione sommaria dei fatti della causa;
–          Le indicazioni dell’art. 163 c.p.c. (questo pone i requisiti dell’atto di citazione di primo grado);
–          I motivi specifici di impugnazione: l’appellante deve indicare specificamente quali sono le questioni della decisione da parte del giudice di primo grado di cui si duole. Deve indicare ad es. quali sono le eccezioni di cui l’appellante lamenta l’errata decisione.

Esempio:           l’attore in primo grado aveva chiesto la restituzione di una somma data a mutuo. Il convenuto ha proposto più eccezioni (compensazione, prescrizione, remissione). Il giudice rigetta tutte le eccezioni ed accoglie la domanda. Il convenuto è quindi il soccombente, propone appello. Deve indicare specificamente quali sono le decisioni della sentenza di primo grado di cui si lamenta. Se si lamenta solo dell’errata decisione di due delle eccezioni che il giudice di primo grado ha rigettato (es. compensazione e prescrizione), il giudice d’appello conoscerà solo di quelle due questioni. La cognizione del giudice d’appello verrà esercitata solo con riferimento ai motivi dell’appello. Si determina una riduzione della cognizione del giudice d’appello.
Questo vale per qualsiasi decisione, di rito o di merito.
La stessa regola vale quando l’appellante è l’attore soccombente.
Esempio:           l’attore ha chiesto l’accertamento del proprio diritto di proprietà su un bene immobile eccependo la compravendita e l’usucapione. Il giudice rigetta la domanda decidendo negativamente entrambe le questioni. Se l’attore si duole solo dell’errata decisione sulla questione relativa all’usucapione il giudice d’appello conoscerà solo di quella questione.

Nell’ultimo decennio si è formato un orientamento molto gravoso per quanto riguarda la formulazione dei motivi d’appello: non basta indicare quali sono le decisioni di cui l’appellante si lamenta, bisogna anche esporre le ragioni della decisione del giudice di primo grado, ed anche la critica delle ragioni in modo da intaccarne il fondamento logico.
Conseguenze della mancata specificazione dei motivi d’appello:
Secondo Canova la mancanza della specificazione dei motivi d’appello determinava una mera irregolarità: partendo dal concetto per cui l’appello è un’impugnazione sostitutiva ed è la prosecuzione del giudizio di primo grado, la mancata specificazione poteva benissimo essere integrata.

La giurisprudenza invece riteneva che la mancata specificazione dei motivi d’appello determinasse la nullità dell’atto. Superava l’obiezione secondo cui la legge prevede che la nullità deve essere espressamente prevista dalla legge (art. 156 c.p.c.) affermando che la legge prevede altresì che un atto è nullo quando manca dei requisiti indispensabili per raggiungere lo scopo. Aveva quindi assimilato i motivi d’appello all’oggetto d’appello, quindi così come è nullo l’atto di citazione se manca l’oggetto del giudizio d’appello sarà nullo l’atto di citazione quando manca la specificazione dei motivi d’appello.

Con l’introduzione del nuovo art. 164 c.p.c. si sono previste delle sanatorie (vedi p. 125), quindi se non sono specificati i motivi d’appello vi sarà la possibilità di integrarli, con la conseguenza che, se fra la prima notificazione e la seconda non è scaduto il termine per impugnare, il processo d’appello potrà proseguire (se invece il termine è scaduto rimane salvo il diritto dell’appellato di eccepire la decadenza dal potere d’impugnare).

La giurisprudenza per superare questo rilievo della dottrina ha affermato che l’appello non è più nullo bensì inammissibile (questo perché non c’è nessuna norma che prevede che l’inammissibilità vi sia solo quando lo prescrive la legge). L’inammissibilità determina l’impossibilità di proporre nuovamente l’appello, anche qualora non siano scaduti i termini.

L’art. 346 c.p.c. prevede che “le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”.
Se noi intendiamo il termine “domande” in senso proprio arriviamo a dare un significato al termine “non accolte” che è differente a seconda che si riferisca alle domande o alle eccezioni:
–          Eccezioni: l’espressione “non accolte” in questo caso significa sia “rigettate” che “dichiarate assorbite”.
Esempio:           Tizio chiede la restituzione di una somma data a mutuo. Caio eccepisce tre eccezioni (compensazione, rimessione e prescrizione). Il giudice accoglie l’eccezione di prescrizione, respinge quella di compensazione e dichiara assorbita l’eccezione di remissione. Il creditore appella, motivo specifico sarà l’errata decisione dell’eccezione di prescrizione. L’appellato (convenuto vittorioso) avrà l’onere di riproporre le eccezioni non accolte, tanto quelle rigettate quando quelle dichiarate assorbite. Se non le ripropone queste si intendono rinunciate (il giudice d’appello non conoscerà di quelle eccezioni). Così facendo si riduce l’ambito di cognizione del giudice d’appello rispetto quello del giudice di primo grado;
–          Domande: l’espressione non accolte in questo caso significa solo “dichiarate assorbite”.
Esempi:
Un minore ha acquistato un biglietto in un’agenzia, è andato a fare un viaggio e poi l’agenzia richiede il pagamento. I genitori si rifiutano di pagare in quanto il contratto è stato stipulato da un minore. L’agenzia propone una domanda di pagamento del prezzo, ed in via subordinata un’azione di ingiustificato arricchimento. Il giudice accoglie la prima domanda. I genitori appellano lamentandosi dell’errata decisione. Intendendo il termine domanda in senso proprio, l’agenzia ha l’onere di riproporre la domanda dichiarata assorbita;
Le domande sono state entrambe rigettate. L’agenzia propone appello ma impugna solo quella parte di sentenza relativa alla domanda di ingiustificato arricchimento. In questo caso non potrà trovare applicazione l’art. 346 c.p.c. in quanto passa in giudicato il capo di sentenza non impugnato (art. 329.2 c.p.c.).

La soluzione è intendere il termine “domande” come ragioni di domanda (causa petendi), così l’attore appellato deve riproporre le ragioni di domanda che erano state rigettate o dichiarate assorbite.
Esempio:       Tizio chiede l’accertamento del diritto di proprietà su un bene deducendo la donazione, la compravendita e l’usucapione. Il giudice respinge la donazione, accerta che c’è stata la compravendita e dichiara assorbito l’usucapione. Il convenuto appella. L’attore ha l’onere di riproporre le questioni, relative alle ragioni di domanda che aveva dedotto, che sono state rigettate o dichiarate assorbite.
In questo modo si arriva ad intendere il termine “non accolte” come sempre comprensivo dei concetti di “rigettata” e “dichiarata assorbita”, questo sia con riferimento alle domande che alle eccezioni.

Accogliendo questa soluzione poi si arriva a configurare l’art. 346 c.p.c. come riferentesi sempre e solo all’appellato (sia che vittorioso in primo grado sia stato l’attore sia che sia stato il convenuto). Se invece intendiamo il termine domanda in senso proprio ci troviamo il problema se sia applicabile anche all’appellante (nell’esempio sopra dell’agenzia di viaggi, qualora le domande siano state entrambe respinte e l’agenzia impugni solamente il capo di domanda relativo all’ingiustificato arricchimento non si potrà applicare l’art. 364 c.p.c.).

Ritenendo che l’art. 346 c.p.c. si riferisca sempre e solo all’appellato poi arriviamo anche ad dare una soluzione armonica per quanto riguarda l’art. 342 c.p.c. Questo riguarda solo l’appellante, e questo sia che soccombente in primo grado sia stato l’attore sia che sia stato il convenuto.
Possiamo quindi dire che con riferimento al problema dell’effetto devolutivo l’art. 342 c.p.c. e l’art. 346 c.p.c. prevedono due oneri, e attraverso le attività contemplate da questi oneri (l’onere di specificazione dei motivi e l’onere di riproposizione delle questioni non accolte) si incide sulla cognizione del giudice d’appello (è possibile ridurre l’ambito di cognizione del giudice d’appello). Queste attività riguardano sia l’attività dell’appellante che l’attività dell’appellato.

Ci si chiede quindi se esista o meno l’effetto devolutivo dell’appello:
–          Alcuni ritengono che non esista, l’ambito di cognizione del giudice è determinato dall’attività delle parti (di specificazione dei motivi per quanto riguarda l’appellante, di riproposizione delle questioni non accolte per quanto riguarda l’appellato);
–          Altra opinione invece ritiene che l’effetto devolutivo sia pieno, solo che le parti possono ridurlo attraverso il compimento di attività omissive. Forse è questa l’opinione migliore. L’accoglimento dell’una o dell’altra opinione comunque non implica grandi effetti pratici.

Altro problema che incide sull’ambito della cognizione del giudice d’appello è quello del rilievo d’ufficio delle questioni. Si pone specialmente con riferimento alle questioni di rito. Non sorge quando vi è una disciplina specifica delle questioni di rito (es. questione di competenza). Ci sono vari orientamenti:
–          La Cassazione ultimamente ha affermato che con riferimento alle questioni di rito bisogna distinguere:
Se vi è la decisione sulla questione nella sentenza (anche se definitiva) allora quella questione non può essere rilevata d’ufficio dal giudice d’appello (nonostante la regola generale sia quella del rilievo d’ufficio);
Se non vi è alcuna decisione sulla questione di rito allora il giudice d’appello può rilevarla d’ufficio.
È criticabile poiché è in contrasto con la legge (es. l’art. 37 c.p.c. afferma che la questione di giurisdizione è rilevabile d’ufficio in ogni grado e stato del processo);
–          Altro orientamento ritiene che riguardo le questioni di rito vi è sempre una decisione (implicita o esplicita). Se la sentenza pronuncia sul merito significa che ha ritenuto esistente il potere decisorio nel merito, che ha ritenuto esistenti le condizioni di trattabilità e decidibilità della causa nel merito. Conseguenza di quest’opinione è l’inesistenza del rilievo d’ufficio di tali questioni. Anche quest’opinione è in contrasto con la lettera della legge;
–          Una terza opinione (Consolo) afferma che si può anche ritenere che vi sia sempre una decisione implicita sulle questioni di rito, ma in ogni caso si ha sempre il rilievo d’ufficio. Questo perché si deve ritenere che nel processo vi siano sempre due oggetti:
Oggetto processuale: è costituito dalla questione se esista o meno il dovere decisorio del giudice nel merito;
Oggetto sostanziale: è la questione se esista o meno la situazione sostanziale fatta valere dall’attore.

Questi due oggetti però sono strettamente collegati, l’uno esiste in funzione dell’altro. Se la sentenza pronuncia solo sul merito, comunque quando viene proposto appello l’oggetto del giudizio d’appello è costituito dall’oggetto sostanziale, ma non può non essere anche dedotto l’oggetto processuale. Tutte le questioni processuali sono devolute alla competenza del giudice d’appello, salvo che la legge disponga preclusioni (es. questione della competenza). Pertanto sempre esiste il rilievo d’ufficio, a prescindere dal fatto che vi siano o meno decisioni espresse sulle questioni di rito;
–          La Cassazione ha ritenuto che sulla questione di giurisdizione comunque in primo grado si debba sempre configurare una decisione, sia essa esplicita o implicita. Ha dato un’interpretazione in totale contrasto con l’art. 37 c.p.c. Conseguenza di tale orientamento è l’inesistenza del rilievo d’ufficio con riferimento al difetto di giurisdizione (sia in appello che in Cassazione).

 

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