Finché l’atto esterno sarà tale da poter condurre tanto al delitto quanto all’azione innocente, non avremo che un atto preparatorio, il quale non può imputarsi come conato”. Il requisito dell’univocità tende a impedire un’eccessiva dilatazione dell’istituto del tentativo, nella quale si ricadrebbe se si punissero atti privi dell’attitudine a esprimere una chiara direzione criminosa.

  • Secondo la concezione soggettiva, il requisito dell’univocità da riferimento ad un criterio di prova, cioè l’univocità degli atti, indicherebbe l’esigenza che, in sede processuale, sia raggiunta la prova del proposito criminoso; prova desumibile oltre che dall’atto in sé considerato, anche dall’aliunde (ovvero dai precedenti, dalla personalità del reo, dalla eventuale confessione …). Questo modo di intendere l’univocità però, si riduce ad una sorta di interpretatio abrogans: l’esigenza di provare la volontà criminosa discenderebbe comunque infatti, dalle regole generali in tema di elemento soggettivo del reato, mentre il requisito della non equivocità cui allude l’art. 56 si riferisce alle sole ipotesi di delitto tentato.
  • Secondo la concezione oggettiva, la direzione non equivoca degli atti rappresenta un criterio di essenza: cioè l’univocità va considerata come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono in se stessi possedere, riguardati nel contesto in cui sono inseriti, l’attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito. Con tale concezione però, si rischia di restringere troppo l’ambito di operatività del tentativo, dato che solo in una minoranza di casi gli atti realizzati, porterebbero in se stessi, i segni del delitto programmato.

L’esigenza di configurare l’univocità come caratteristica dell’azione non esclude che la prova del fine delittuoso possa essere desunta in qualsiasi modo, facendo applicazione dei normali canoni probatori in tema di elemento soggettivo del reato. Solo che, una volta conseguita anche aliunde la prova del fine verso cui tende l’agente, è necessaria una seconda verifica: bisogna accertare se gli atti, considerati nella loro oggettività, riflettano in maniera sufficientemente congrua, la direzione verso il fine criminoso eventualmente già accertato per altra via.

Caso. Un venditore ambulante detiene all’interno di un’auto, scatole destinate a essere smerciate e contenenti in apparenza sigarette, ma in realtà riempite con patate. L’eventuale ammissione del venditore di voler destinare alla vendita le false scatole di sigarette non sarebbe sufficiente a configurare un tentativo di truffa, fino a quando le scatole non sono tolte dall’automobile e concretamente offerte in vendita.

 

Caso

Un gruppo di malviventi si apposta nelle vicinanze di una banca con pistole cariche, calze per mascherarsi, guanti per non lasciare impronte, sacchi per porvi la refurtiva, dopo aver parcheggiato in posizione tale da facilitare la fuga e tenendovi a bordo targhe di immatricolazione diverse da quelle proprie delle autovetture. Qui gli atti sono univoci, senza che vi sia bisogno di un previo accertamento della volontà criminosa.

  • Allo scopo di accertare l’univocità è prospettabile un altro criterio; la teoria materiale oggettiva individuale, nel ricostruire l’univocità attorno al concetto di tipicità degli atti, fa nel contempo, riferimento al concreto piano criminoso dell’agente. Alla stregua di tale teoria sono considerati atti univoci ,quelli che secondo il programma criminoso ideato dall’agente nella situazione concreta, si collocano come prossimi o contigui all’azione esecutiva del reato.

 

Lascia un commento