Il reato è definibile come un fatto umano tipico, antigiuridico e colpevole.
La tipicità è il giudizio di corrispondenza tra il fatto e lo schema legale di una specifica figura di reato.
L’antigiuridicità è l’effettivo contrasto tra fatto tipico ed ordinamento.
La colpevolezza è la condizione di riconducibilità del fatto tipico e antigiuridico alla responsabilità di un soggetto che ne risulta l’autore.
La concezione tripartita convive con la teoria della c.d. bipartizione, la quale si limita a scomporre il reato in un elemento oggettivo e in un elemento soggettivo: manca l’antigiuridicità come elemento costitutivo autonomo dell’illecito penale. In realtà la concezione tripartitica soddisfa meglio le esigenze di indagine del reato, in quanto ogni categoria in cui viene scomposto assolve funzioni specifiche, corrispondenti ad un peculiare aspetto della tecnica di tutela penalistica.
In Italia la concezione tripartita non è ancora riuscita ad affermarsi in quanto la giurisprudenza dominante ha escluso che le cause di giustificazione ineriscano alla struttura del reato, qualificandole come esterne, impeditive della punibilità e quindi, suscettibili di operare soltanto ove ne sia stata raggiunta la prova piena.
La ritenuta non appartenenza delle cause di giustificazione, alla struttura del reato consente di evitare che il dubbio sull’esistenza di una causa di giustificazione possa giustificare sentenze assolutorie. Tale motivazione oggi non ha più ragione d’essere data la soluzione normativa di cui all’art. 530 del nuovo c.p.p. che afferma che il giudice dovrà comunque pronunciare sentenza di assoluzione piena anche ove vi sia dubbio sull’esistenza di cause di giustificazione.
È quindi venuta meno la preoccupazione pratica che finora ha impedito alla giurisprudenza di accogliere la concezione tripartita.
1° elemento: fatto tipico
Il termine fatto o fattispecie indica, in generale, tutti i presupposti oggettivi e soggettivi necessari a produrre la conseguenza giuridica.
In ambito penale, il concetto di fatto tipico o fattispecie o tipo delittuoso, va inteso in un’accezione più ristretta comprendente il complesso degli elementi che delineano il volto di uno specifico reato. Il fatto ingloba quindi, solo quei contrassegni in presenza dei quali può dirsi adempiuto un particolare modello delittuoso e non un altro. (es. nel delitto di omicidio il fatto tipico è il cagionare la morte).
Funzione del fatto tipico è circoscrivere specifiche forme di aggressione ai beni penalmente tutelati: selezionando le forme o modalità di offesa che il legislatore ritiene così intollerabili da giustificare il ricorso all’estrema ratio della sanzione punitiva. La categoria della tipicità segna quindi, al contempo, i limiti o confini della tutela penalistica.
La categoria del fatto tipico deve essere idonea a rispettare tutte le esigenze poste dal principio di materialità: è necessario, quindi, che il legislatore eviti di creare tipi “artificiali” di reato che non hanno riscontro nella realtà concreta: se l’illecito penale che viene in questione è privo di riferimenti empirici, perché non ha alla base alcun fenomeno delittuoso ben profilato nella realtà sociale, non solo sarà difficile ricostruirne la precisa fisionomia, ma il giudice non sarà in grado di accertare il “fatto materiale”, il comportamento esteriore in cui il reato dovrebbe concretizzarsi. (es. il delitto di plagio, dichiarato incostituzionale perché la fattispecie incriminatrice non riusciva a descrivere un fatto materiale suscettivo di accertamento empirico nella realtà esterna).
Funzioni:
Descrivere specifiche modalità di aggressione ai beni penalmente protetti. La tipicità del fatto si riconnette alla lesione del bene giuridico, il quale funge, quindi, da criterio legislativo di criminalizzazione.
Il bene giuridico assolve anche una funzione dogmatica, che consiste nel far sì che la tipicità stessa concettualmente includa la lesione del bene giuridico. Un fatto il quale, non sia capace di offendere il bene tutelato dalla norma è solo in apparenza conforme al tipo di reato. Perciò la contrapposizione tra tipicità e offensività è illusoria. Tipicità apparente si ha quando all’esteriore conformità del fatto alla fattispecie legale, non si accompagna un’effettiva lesione del bene. Per es. nel caso di furto di un acino d’uva o falso grossolano (non in grado di trarre in inganno).
2°elemento: antigiuridicità
In alcuni casi un fatto tipico, cioè conforme ai modelli di reato previsti dalla parte speciale, è giustificato o consentito dall’ordinamento giuridico.
Il giudizio di antigiuridicità si risolve nella verifica che il fatto tipico non è coperto da alcuna causa di giustificazione o da alcuna esimente. La presenzia di un esimente fa venir meno l’antigiuridicità.
L’antigiuridicità ha natura oggettiva, quindi costituisce una qualità oggettiva del fatto tipico e come tale prescinde ed è distinta dalla colpevolezza. L’art 59. Fissa la regola della rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione, nel senso che operano anche se non conosciute dall’agente.
Teoria degli elementi negativi del fatto. Alcuni autori hanno negato che l’antigiuridicità costituisca un elemento autonomo, facendo ricorso al concetto di elementi negativi del fatto (cioè di elementi che devono mancare perché l’illecito penali si configuri). Tale teoria è sicuramente da scartare, perché se dovessimo includere, nella fattispecie anche se con segno negativo, i presupposti delle scriminanti si avrebbe ad es. che è vietato cagionare la morte di un uomo, a meno che l’azione non sia giustificata dalla necessità di difendersi!. La ragione storica che ha dato origine alla teoria in esame, era costituita dalla ricerca di espedienti concettuali che consentissero di risolvere il problema dell’errore sull’esistenza di cause di giustificazione, nell’ambito di ordinamenti privi di una norma ad hoc, che invece esiste in Italia.
La funzione della categoria del fatto è quella di selezionare le forme di offesa meritevoli di sanzione penale, ragion per cui la categoria stessa assume una connotazione penalistica. Mente la categoria delle cause di giustificazione, proprio perché non va ricostruita alla stregua dell’intero ordinamento, non ha funzione prettamente penale, anzi le scriminanti servono a integrare il diritto penale nell’ordinamento generale.
Dal carattere non necessariamente penale delle scriminanti derivano varie conseguenze: da un lato la disciplina non è necessariamente subordinata al principio della riserva di legge, dall’altro essendo le norme sulle scriminanti autonome, extrapenali desumibili da tutto l’ordinamento, se ne deduce la possibile estensione analogica.
Antigiuridicità in senso materiale. Questo secondo concetto, darebbe conto delle ragioni sostanziali che stanno alla base dell’incriminazione, ragioni ravvisate dalla dottrina nella antisocialità del fatto e nella lesione del bene penalmente protetto. Il profilo dell’incidenza lesiva del fatto sul bene protetto è però già assorbito dal giudizio di tipicità. Un concetto di antigiuridicità materiale come requisito distinto e ulteriore rispetto a quello di non conformità alle norme positive, appare a poi inaccettabile se ricostruito sulla base di parametri dichiaratamente ultralegali (es. vaghi criteri di cultura vivente o valori etico- sociali). Tali orientamenti si pongono in contrasto col principio di legalità e il giudizio di antigiuridicità non può che essere rapportato a precise norme giuridiche, suscettibili tutt’al più di applicazione analogica ai casi simili se non espressamente regolati.
Antigiuridicità speciale. E’ un concetto riferito ai casi in cui la stessa condotta tipica è contraddistinta da una nota di illiceità desumibile da una norma diversa da quella incriminatrice. Questa nota di illiceità costituisce un elemento diverso e ulteriore rispetto alla normale antigiuridicità come assenza di cause di giustificazione. La presenza di questa speciale antigiuridicità si nota da espressioni legislative quali: illegittimamente, abusivamente, arbitrariamente …. (però a volte si ha illiceità speciale anche in mancanza di tali espressioni e per contro si può avere illiceità speciale apparente anche quando tali espressioni sono presenti). Nella maggior parte dei casi, si tratta di elementi normativi della fattispecie, per cui per determinarne il concetto, occorre fare riferimento ad una disposizione extrapenale.
Es. art. 348, il quale incrimina chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato. L’avverbio abusivamente, richiede ai fini dell’integrazione della condotta tipica, il contrasto col le disposizioni amministrative che disciplinano l’esercizio delle varie professioni.
Questa categoria ha rilevanza pratica soprattutto sul terreno dell’errore e del dolo, posto che il contrasto tra la condotta tipica e la norma extrapenale deve riflettersi nel momento conoscitivo della volontà colpevole: un errore sulla illiceità speciale, ove scaturisca dalla erronea interpretazione di una norma extrapenale, può risolversi in un errore sul fatto che esclude il dolo. (art. 47 comma 3°).
3° elemento: colpevolezza
La colpevolezza riassume le condizioni psicologiche che consentono l’imputazione personale del fatto di reato all’autore. Nel giudizio di colpevolezza rientra, anzitutto, la valutazione del legame psicologico o comunque del rapporto di appartenenza tra fatto e autore, nonché la valutazione delle circostanze, di natura personale e non, che incidono sulla capacità di autodeterminazione del soggetto. (Ovviamente il concetto di colpevolezza non presuppone il libero arbitrio in senso filosofico).
La ratio “liberal- garantista” che giustifica il principio di colpevolezza è individuata nell’ambito di una prospettiva idonea a contemperare l’efficienza preventiva del sistema con le garanzie fondamentali di libertà del cittadino. L’assumere il dolo o colpa come presupposto della responsabilità, equivale a circoscrivere la punibilità nei limiti di ciò che è prevedibile ed evitabile da parte del soggetto; tale possibilità di controllo permette a ciascuno di pianificare la propria esistenza senza incorrere in sanzioni penali.
Sent. 364/88 (domanda esame)
In tale sentenza, la Corte ha ravvisato la ratio della colpevolezza nell’esigenza di garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producono conseguenze penalmente vietate. La colpevolezza quindi assume il ruolo di principio di civiltà. La Corte poi, ravvisa nella colpevolezza un principio costituzionale, garantista in base al quale si pone un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti minimi d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può essere legittimamente sottoposto a pena.
Si contesta quindi la legittimità delle ipotesi residue di responsabilità oggettiva; infatti in mancanza di coefficienti soggettivi di imputazione, il soggetto può essere chiamato a rispondere anche di fatti che si sottraggono al suo personale potere di controllo, e a soffrirne è la libertà di programmazione delle azioni future.
Nessuno oggi contesta il ruolo della colpevolezza come principio di civiltà, ma vi è minore uniformità di vedute circa il contenuto della colpevolezza come categoria dogmatica: mentre è pacifico che essa abbraccia come requisiti minimi il dolo o la colpa, si discute se vi rientrino elementi ulteriori e di quale natura siano. Nella dottrina contemporanea, la colpevolezza in senso dogmatico tende a essere distinta a seconda che funga da elemento costitutivo del reato ovvero da criterio di commisurazione della pena. In questa seconda accezione la colpevolezza assurge a categoria di sintesi di tutti gli elementi, imputabili al soggetto, da cui dipende la gravità del singolo fatto di reato.