Sordomutismo

Il codice prevede una disciplina sul sordismo sul presupposto che la mancanza di udito e di parola pregiudichi la capacità di autodeterminazione responsabile dell’individuo. L’art. 96 stabilisce il principio per cui tanto l’incapacità, quanto la capacità devono formare oggetto di concreto accertamento in giudizio. Se quindi, si accerta in giudizio che il sordo al momento della commissione del fatto era capace nonostante la sua affezione, l’imputabilità non è esclusa, mentre lo è in caso contrario.

L’art. 96 parla solo di sordismo, per cui tale disposizione non può essere applicata ai casi di solo mutismo o di sola sordità, ma occorre che sussistano entrambe le affezioni. Si distinguono poi:

  • Sordismo congenito o precocemente acquisito, che ostacola gravemente lo sviluppo psichico
  • Sordismo tardivamente acquisito, che quindi insorge in una fase in cui il patrimonio linguistico è già conseguito.

Sembra che l’art. 96 faccia solo riferimento al primo dei 2 casi.

 

Actio libera in causa (art. 87)

L’art. 87 nel disciplinare lo stato preordinato di incapacità di intendere e di volere, stabilisce che “la disposizione della prima parte dell’art. 85 (secondo cui l’imputabilità deve sussistere al momento della commissione del reato) non si applica a chi si è messo in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa”.

Il principio generale di cui all’art. 87 riceve una esemplificazione codicistica ella disciplina della ubriachezza preordinata. Per giustificare l’affermazione della responsabilità in casi come questi si è soliti ricorrere al paradigma dell’actio libera in causa, escogitato dalla teologia morale con specifico riferimento alle condotte peccaminose poste in essere senza libera volontà al momento della loro realizzazione, ma pur sempre riconducibili ad un precedente atto di volontà dello stesso soggetto: è actio libera in causa appunto perché il soggetto aveva il potere di porsi o no in condizioni di incapacità.

Come si spiega che il soggetto risponde ugualmente del reato commesso, se al momento del fatto, era in imputabile?

La dottrina ha sostenuto che l’attività esecutiva del reato posto in essere dall’incapace inizia già nel momento in cui egli si pone volontariamente in condizione di incapacità; ma tale tesi facente leva sull’anticipazione dell’azione tipica, finisce con l’ampliare eccessivamente il concetto di esecuzione del reato fino a farvi rientrare anche quella che è solo in realtà, una condotta precedente.

Altra parte della dottrina rinviene il fondamento della disciplina nel semplice nesso causale, per cui colui che determina una situazione dalla quale derivi un evento lesivo, deve rispondere dell’evento stesso, indipendentemente dalla circostanza che quest’ultimo sia previsto o voluto. Tale visione oggettiva contrasta però col principio di colpevolezza.

La soluzione migliore è quella che riconduce nell’alveo della colpevolezza anche l’ipotesi di incapacità procurata: al soggetto quindi, può essere mosso un rimprovero per essersi liberamente posto in quella condizione di incapacità, che gli ha reso possibile o più agevole la realizzazione del reato programmato. Ai fini della punibilità occorre che il reato concretamente posto in essere sia del tipo di quello inizialmente programmato, quindi la responsabilità esula se il fatto illecito non costituisce effettiva attuazione del programma criminoso.

 

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