Il secondo problema è quelli di stabilire in che cosa debba consistere il tentativo punibile. Sebbene, da un lato, sia piuttosto facile individuare il confine interno del tentativo verso il reato perfetto, dall’altro risulta essere assai arduo stabilire il suo confine esterno verso l’indifferenza penale.

La soluzione, anche in questo caso, è condizionata dalla dialettica tra:

  • la concezione soggettivistica, che presenta una nozione di tentativo assai ampia, tale da abbracciare tutti gli atti sintomatici della pericolosità del soggetto o della ribellione della volontà alla norma, fino ad estendersi al più remoto stadio degli atti preparatori (es. acquisto dell’arma).
  • la concezione oggettivistica, che restringe la nozione di tentativo soltanto a quelle manifestazioni di volontà criminosa concreatesi in atti esterni che realizzano una situazione di reale pericolo.

 All’interno, poi, della concezione oggettivistica si pone il terzo problema del tentativo, ossia il rispetto del principio di legalità, nel ricorrente e perenne conflitto tra difesa sociale e libertà del cittadino. Mentre i sistemi a legalità sostanziale finiscono per incentrare anche la nozione di tentativo sulla generica pericolosità sociale del comportamento, nei sistemi a legalità formale il principio del nullum crimen sine lege impone:

  • la previsione espressa, da parte della legge, anche dei reati tentati. Per esigenze di economicità, tuttavia, ciò avviene attraverso la combinazione della norma generale sul tentativo (art. 56) con le singole norme incriminatrici speciali. Innestandosi su tutte le fattispecie che prevedono delitti dolosi perfetti, quindi, la disposizione sul tentativo raddoppia le figure criminose, affiancando ad ogni figura di delitto perfetto (es. omicidio) una figura di delitto tentato (es. tentato omicidio).

Chi compie un tentativo, comunque, commette un reato, come dimostra fra l’altro il fatto che il codice con la frequente espressione commettere un reato si riferisce non solo alla consumazione ma anche al tentativo.

  • la tassativizzazione anche dei reati tentati, cosa che avviene provvedendo la legge a tipizzare non solo i singoli reati perfetti, ma anche il comportamento comune del tentativo, in modo che dalla combinazione delle due norme risultino fattispecie di delitti tentati tassativamente determinate.

 Nello sforzo di tipizzare il comportamento punibile come tentativo, le diverse legislazioni hanno sempre oscillato tra due soluzioni di fondo:

  1. la teoria dell’inizio dell’esecuzione, la quale individua il tentativo punibile in base al grado di sviluppo dell’azione criminosa. Secondo tale teoria, in particolare, la manifestazione del proposito criminoso diventa penalmente rilevante quando non si arresta alla mera preparazione, ma sfocia nella fase di esecuzione del delitto. Pur nella sua indubbia finalità politico-garantista, tuttavia, la teoria dell’inizio dell’esecuzione, mentre da un lato non soddisfa pienamente l’esigenza di certezza giuridica, dall’altro riduce il tentativo punibile entro limiti troppo ristretti, sacrificando la difesa sociale.

Una diffusa corrente dottrinale ha cercato la soluzione del problema nel criterio della tipicità: sarebbero esecutivi gli atti che iniziano l’attuazione della condotta tipica e preparatori quelli che restano fuori di questa. Pur costituendo un indubbio progresso, tuttavia, tale criterio è stato fortemente criticato (es. dovrebbero rispondersi di omicidio tentato già per il fatto di comperare l’arma del delitto, mentre non dovrebbe rispondere di tentato furto il ladro che scali il muro, scassini la porta o adoperi chiavi false, non costituendo tali atti l’inizio della condotta tipica della sottrazione).

  1. di fronte alle suddette insuperabili difficoltà ed incertezze, la teoria della idoneità-univocità (seguita dal codice penale del 1930) individua il tentativo punibile non più sulla base del grado di sviluppo dell’azione criminosa, ma sulla base dell’idoneità e dell’univoca direzione degli atti a realizzare il reato perfetto.

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