A colmare la principale lacuna del pensiero liberale si dedica un filone di pensiero detto positivista o determinista cui si deve il vero inizio della criminologia come scienza autonoma. Il più noto esponente è Cesare Lombroso a cui si attribuisce la paternità della criminologia moderna, assumendosi come atto di nascita la pubblicazione nel 1876 della sua opera “L’uomo delinquente”. È l’attenzione alla realtà fattuale del crimine a ricevere con i positivismi un formidabile impulso. La scuola classica esorta gli uomini a studiare la giustizia, la scuola positiva esorta la giustizia a studiare gli uomini. La diversità degli indirizzi di pensiero all’interno della Scuola vede intonazioni di pensiero modulate su componenti sociologiche e psicologiche (Es. Enrico Ferri, Raffaele Garofano).

In tutti i maggiori esponenti della Scuola l’estrapolazione di una porzione di realtà dal complessivo contesto empirico nasce con l’intento di pervenire a una spiegazione del crimine alla individuazione delle cause che sono elevate a paradigma eziologico dai positivisti. Nella o nelle cause del crimine si localizza un elemento che, proprio in quanto determinante, non può che coinvolgere nella sua interezza la persona del criminale segnato da patologie tali da farne un diverso rispetto a tutti gli altri appartenenti al corpo sociale.

L’isolamento dal resto dei soggetti normali scaturisce già dal riscontro della malattia criminale. È già l’opera di Lombroso a fare dell’uomo delinquente il centro pressoché esclusivo dell’attenzione scientifica. Alla tendenza della criminologia a pensare per autori possono essere in larga misura ricondotte le troppe distrazioni manifestate da questa disciplina in anni recenti in aree del comportamenti criminale. Contro una tale impronta di anormalità si sono appuntate le fiere critiche di quegli studiosi che si sono imbattuti in una folla di autori criminali del tutto normali, anzi più normali di altri (es. colletti bianchi).

L’assunto del positivismo sociale, che identificava nella povertà la causa di un crimine e dunque prefigurava una possibile diminuzione dei tassi di delinquenza per effetto di misure volte al miglioramento del livello di vita è parso falsificabile sulla base della realtà dei paesi occidentali avanzati nel periodo post-bellico. La ben nota e annosa crisi della criminologia clinica ha finito così per confluire in una duratura crisi della criminologia tout court. Per una sorta di regola del contrappasso, il riduzionismo esercitato dal positivismo si è trasfigurato nella riduzione della scienza criminologica allo specifico approccio seguito dagli esponenti di quella scuola.

È pur vero che senza non qualche buona ragione da vari anni si invoca non solo l’abolizione della criminologia ma quella dello stesso diritto penale. L’abolizione del diritto penale richiederebbe a sua volta una previa abolizione della criminalità altrimenti il diritto penale rischierebbe di dover tornare in vita o di essere sostituito da altri meccanismi sociali.

Non è solo il pensare per autori a trovare tale corrispondenza con questioni al centro dell’odierno dibattito scientifico. Domina nei positivisti l’idea di una reazione difensiva della società caratterizzata dall’adozione di misure a carico del delinquente e volte a realizzare una vasta gamma di interventi, misure con cui si intendeva rispondere alla pericolosità del reo, alla probabilità di recidiva nel delitto. Queste proiezioni politico-criminali non sono rimaste confinate nell’ultravioletto dei buoni propositi ma hanno trovato espressione in un compiuto progetto di codice penale (progetto Ferri 1921) e ancor più tangibili nel codice penale dei giorni nostri (codice  Rocco 1931) che reca ben visibili gli influssi della scuola positiva non meno di quelli impressivi dall’indirizzo classico.

L’aggressione più grave all’individuo viene soprattutto dallo zelo terapeutico perseguito con la sanzione difensiva del corpo sociale tale da comportarne una durata potenzialmente illimitata. Questa violenza del filone positivista potrebbe essere vista come benefica levatrice della storia della criminologia. Dal punto di vista logico essa poggia sul postulato che qualche fine sia già dato in modo prefissato così da rimanere fuori dall’indagine, dove il solo problema sarebbe accertare e elaborare i materiali con cui il fine può conseguirsi, ignorando i fini intenzionali. Soltanto il riconoscimento che i fini da conseguire (intenzionali) hanno natura di ipotesi da formare e confermare può modificare i modi abituali di trattare le questioni sociali.

 

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