Oggi si pone il problema di stabilire se il concetto di infermità adottato dall’art. 88 coincida col concetto di malattia. Nel suo significato letterale infermità è un concetto molto ampio comprendente anche disturbi psichici di carattere non strettamente patologico: ne consegue che ove si tenga ferma la distinzione tra i due termini, l’istituto dell’inimputabilità può subire un’estensione applicativa.
La tesi della maggiore ampiezza del concetto di infermità riceve sostegno se si considera lo scopo sotteso alle norme in materia: ai fini del giudizio di imputabilità, non interessa tanto che la condizione del soggetto sia catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il suo disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la capacità di intendere e di volere.
Inoltre, l’art. 88 parla solo di infermità (tale da provocare uno stato di mente che esclude l’imputabilità), e non specificatamente di infermità mentale, per cui tale stato potrebbe anche essere provocato da una malattia fisica (delirio determinato da stato febbrile).
Orientamenti giurisprudenziali
Un indirizzo giurisprudenziale ancora diffuso, tende a ricostruire il concetto di malattia mentale secondo un modello medico, per cui è definito infermità mentale solo il disturbo psichico che poggia su una base organica e/o possiede caratteri patologici così definiti da poter essere ricondotto ad un preciso quadro nosografico- clinico. Questo orientamento esclude quindi, le semplici anomalie psichiche e privilegia i parametri clinici. Da un lato l’ancoraggio alla nosografia psichiatrica ufficiale garantisce la certezza giuridica, dall’altro questo ancoraggio impedirebbe un’eccessiva dilatazione dei casi di ritenuta inimputabilità.
Un indirizzo giurisprudenziale minoritario invece, rivendica una maggiore autonomia della valutazione giuridica rispetto alle classificazioni nosografiche: in questo modo il giudice può fare applicazione degli artt. 88 e 89 anche se il disturbo psichico è in suscettivo di un preciso inquadramento clinico, purché si possa fondatamente sostenere che esso abbia in concreto compromesso la capacità di intendere e di volere dell’imputato.
Tale orientamento consente di attribuire significato patologico anche alle alterazione mentali atipiche (psicopatie), ovvero disarmonie della personalità che, in presenza di particolare gravità, bloccano le controspinte inibitorie del soggetto e gli impediscono di rispondere in maniera critica agli stimoli esterni. (es. di psicopatie sono le reazioni a corto circuito, come il caso Corte Ass. Milano 26 Maggio 1987. Una giovane donna affettivamente immatura e con rigidissimi meccanismi di difesa diretti a negare la realtà, dopo avere psicologicamente rimosso il suo stato di gravidanza nel periodo della gestazione, sopprime al momento del parto il neonato mediante una condotta non controllata delle funzioni superiori dell’”Io”.)
Per risolvere il dilemma se le psicopatie possano assumere rilevanza ai fini del giudizio di imputabilità, si deve fare riferimento alla ratio delle norme in materia: in nome del principio di colpevolezza (che presuppone la possibilità di agire diversamente del reo) si dovrà ammettere che anche le anomalie della personalità, specie se in presenza di condizioni di particolare gravità, possono incidere sulla capacità di intendere e di volere sino ad escluderla del tutto.
La giurisprudenza di legittimità ha infatti deciso che anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale.
Diversi dai disturbi della personalità sono gli stati emotivi e passionali: l’art. 90 stabilisce espressamente che gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità. Per il suo eccessivo rigore, tale norma è andata incontro a critiche da parte della dottrina che ne ha auspicato l’abrogazione. L’art. 90 è stato di recente rivalutato, affermando che la rilevanza scusante degli stati emotivi e passionali può essere ammessa soltanto in presenza di 2 condizioni essenziali:
- Che lo stato di coinvolgimento emozionale si manifesti in una personalità per altro verso già debole
- Che lo stato emotivo o passionale, assuma, per particolari caratteristiche, significato e valore di infermità, sia pure transitoria (es. raptus, panico, reazioni a corto circuito …)