INTRODUZIONE 

La vita umana è il bene supremo protetto dal nostro ordinamento. Pur non essendoci una precisa disposizione costituzionale a tutela della vita, essa viene indirettamente ricavata dalla protezione che la Costituzione garantisce al diritto alla salute ed al divieto di infliggere la pena di morte.

La vita è il bene-presupposto per eccellenza, in quanto imprescindibile per il godimento di ogni altro diritto, e pertanto non può mai essere subordinata ad alcun altro interesse.

Oltre che nella nostra Costituzione, la vita è al vertice dei diritti umani contemplati dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sempre in ambito di normativa internazionale, è da ricordare che la CEDU obbliga esplicitamente gli stati membri a criminalizzare la causazione dolosa della morte di un uomo, nonché i casi di colpa grave in relazione ad attività pericolose.

Ciò premesso, l’organizzazione del nostro codice penale secondo la progressione discendente dai delitti contro lo stato, considerati quindi più gravi, a quelli contro i beni individuali, è oggi considerata incompatibile con l’ordinamento costituzionale e sovranazionale.

La gerarchia dei valori del nostro sistema penale dev’essere osservato senza tener conto dell’organizzazione materiale del codice penale: anche se i delitti contro la vita sono trattati nel titolo XII del libro II, e non nel titolo I, la vita è da considerarsi comunque il bene più importante tra quelli protetti dalla legge penale, e dal nostro ordinamento in generale.

Il codice penale, nel titolo XII del libro II, prevede norme a presidio della vita come bene singolo (capo I) ma anche come bene considerato in una dimensione trans-individuale (capo VI).

Si tratta di reati a forma libera, previsti in tutte le forme della colpevolezza (dolo, colpa, preterintenzione) al fine di coprire ogni possibile modalità di aggressione al bene.

Occorre stabile cosa si intende per “persona umana”. La qualità di persona va considerata a prescindere dal genere, dall’età e dallo stato di salute, purché si tratti di un soggetto dotato di vitalità autonoma, anche se non autosufficiente; irrilevante, ovviamente, è anche la morfologia del soggetto: è sufficiente la condivisione del patrimonio genetico col genere umano.

Importante la distinzione tra uomo e concepito, perché permette di distinguere i delitti contro la vita dai delitti di aborto:

  1. Una prima tesi riconosceva la qualità di “persona” soltanto al “nato”, riferendosi al momento successivo al parto. Ciò viene smentito però dall’art.578 c.p. che parla dell’uccisione del “feto durante il parto”, equiparandola all’uccisione del “neonato” immediatamente dopo il parto.
  2. Una seconda tesi richiede invece il distacco dall’utero, ma ciò non si concilia con l’attuale disciplina sull’interruzione volontaria di gravidanza.
  3. Fondata è invece la tesi che considera “nato” il soggetto dotato di “capacità di vitalità autonoma”, nel senso di capacità di vita extracorporea. Nella legge 194/1978 si prevede infatti il divieto di praticare l’aborto quando il feto sia considerato capace di vitalità autonoma.

All’omicidio del soggetto dotato di vitalità autonoma, seppur non ancora venuto alla luce, si applicheranno quindi le norme in tema di omicidio, offrendosi ad esso massima tutela.

Il concepito, pur in assenza di specifiche norme, è comunque tutelato dall’ordinamento, come specificato dalla Corte Costituzionale che riconosce come la situazione giuridica del concepito sia collocata implicitamente tra i diritti inviolabili garantiti dall’art.2 della Costituzione. Inoltre è da ricordare la “Dichiarazione sui diritti del fanciullo” del 1959, secondo cui il fanciullo “necessita di una protezione e cure particolari sia prima che dopo la nascita”.

Al concepito, tuttavia, si riconosce una tutela affievolita, minore rispetto a quella garantita al soggetto capace di vitalità autonoma. La legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (194/78) consente l’aborto entro i primi 90 giorni, alla condizione che ricorra una situazione di serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna. La tutela del concepito è ancor più affievolita dall’applicazione pratica della legge, in quanto essa viene intesa come se bastasse la mera dichiarazione della donna di voler interrompere la gravidanza, senza che siano compiute indagini circa l’esistenza dei motivi di pericolo né tentativi di dissuasione.

Inoltre l’interruzione della gravidanza, in due tassative ipotesi, è consentita anche dopo i 90 giorni: quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; oppure quando siano accertati processi patologici come malformazioni del feto, che determinino un grave pericolo per la salute psichica della donna.

L’evento tipico dei delitti contro la vita è, ovviamente, la morte. La definizione dell’evento “morte” è fondamentale per delimitare il concetto di “persona umana”, e di conseguenza per determinare il momento della cessazione dell’obbligo di curare, e del momento in cui diventa lecito il prelievo degli organi a fini di trapianto.

L’ordinamento vigente riconduce l’evento morte alla cosiddetta morte encefalica, cioè con la cessazione totale ed irreversibile delle funzioni del sistema nervoso centrale: questa definizione non indica la morte biologica in senso stretto, ma l’entrata nel processo irreversibile della morte. La concezione della morte encefalica si basa sui criteri indicati nel Rapporto di Harvard del 1968, accolti nella maggioranza delle legislazioni.

Possiamo distinguere tre concezioni alternative (che tuttavia non possono essere accolte):

  1. Morte biologica. Si intende la morte dell’organismo. Una simile concezione renderebbe impraticabile il prelievo degli organi a fini di trapianto, nonché protrarrebbe irragionevolmente il dovere di tenere in vita un corpo ormai privo di funzioni vitali.
  2. Morte tronco-encefalica. Si fa coincidere la morte con la cessazione del solo tronco encefalico, regione cerebrale che presiede all’attività respiratoria e cardiaca. Questa concezione non è accettabile in quanto la sua equivalenza con la morte encefalica non è sufficientemente dimostrata dalla scienza.
  3. Morte corticale. Si intende la cessazione dell’attività delle regioni cerebrali superiori, regione in cui si colloca la “coscienza”. Tale tesi è da respingere perché consentirebbe di dichiarare morte le persone in stato vegetativo, la cui irreversibilità non sempre è accertabile.