Nel nostro ordinamento, il tentativo è punibile solo se commesso con dolo: non è configurabile invece, un tentativo colposo.
Secondo la dottrina dominante, l’esclusione della colpa è spiegabile anche per una ragione ontologica: se si muove dal concetto comune di tentativo, come atto intenzionalmente diretto ad un risultato, sarebbe incongruente ipotizzare un tentativo involontario.
Secondo una parte minoritaria della dottrina e della giurisprudenza, muovono dal presupposto che il nostro ordinamento non contiene nessuna norma che esplicitamente distingua i 2 tipi di dolo: essendo la differenza tra tentativo e consumazione, circoscritta dalla stessa legge al piano della sola struttura oggettiva, se ne ricava che il dolo del tentativo e della consumazione sono identici. Inoltre, essendo la direzione non equivoca degli atti, caratteristica che inerisce solo alla fattispecie oggettiva del tentativo, essa non dovrebbe riflettersi anche nel dolo sotto forma di intenzione diretta a commettere il reato. Spesso esigenze di prevenzione generale inducono la giurisprudenza a optare per il trattamento penale + rigoroso, e ciò anche per esigenze di semplificazione probatoria.
La tesi contraria, che ritiene incompatibili tentativo e dolo eventuale, oltre a essere sostenuta dalla maggioranza della dottrina, è andata sempre + affermandosi nella giurisprudenza. Riducendo l’univocità all’esigenza di provare in giudizio l’intenzione criminosa dell’agente, la non equivocità della condotta, finisce col coincidere con la prova di una volontà intenzionalmente diretta a commettere il reato, ma proprio perché si richiede una volontà intenzionale, è giocoforza escludere la compatibilità tra tentativo e dolo eventuale.
• Da un lato, l’autonomia strutturale del tentativo, giustifica che il dolo del tentativo assuma un connotato diverso e non coincidente del tutto con quello della consumazione.
• Dall’altro, rimane ferma l’incompatibilità strutturale tra dolo eventuale e requisito di univocità della condotta.