In alcuni casi ad impedire la consumazione del reato non è un ostacolo esterno, ma un’iniziativa dello stesso agente, il quale, mutando proposito, recede dall’azione criminosa già intrapresa.

L’art. 56 stabilisce che “se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano di per sé un reato diverso” e che “se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da 1/3 alla metà”. Le due distinzioni prendono il nome di desistenza volontaria e recesso attivo (o pentimento operoso).

Entrambe le figure trovano una legittimazione nella teoria del ponte d’oro: in altri termini, l’ordinamento, al fine di prevenire l’offesa ai beni giuridici, farebbe assegnamento sulla promessa di impunità ( o di una riduzione di pena nel caso del recesso attivo) come controspinta psicologica alla spinta criminosa. La teoria del ponte d’oro ha perso la posizione dominante che occupava prima a fronte di 2 obiezioni principali:

  • la funzione di incentivo per l’interruzione dell’attività criminosa presupporrebbe che tutti i rei conoscano la norma sulla desistenza;
  • l’idea stessa del ponte d’oro poggerebbe su concezioni psicologiche estranee alla realtà, perché il soggetto che delinque è solitamente spinto da motivi di natura diversa, e spesso non è capace di valutare razionalmente il pro e il contro delle sue azioni.

Queste obiezioni, non sono però tali da destituire il fondamento della teoria, infatti è vero che le motivazioni di chi delinque spesso non corrispondono a calcoli razionali, ma se ciò fosse sempre vero, dovremmo per coerenza escludere già in partenza la funzione deterrente della stessa minaccia penale. Una ragione giustificatrice del fondamento della desistenza può essere individuata nell’ottica degli scopi della pena, e, precisamente, sul duplice piano della prevenzione speciale e della prevenzione generale: chi ritorna di sua iniziativa sui suoi passi da un lato non rappresenta un esempio pericoloso per gli atri, e, dall’altro, mostra di non possedere una volontà criminosa di tale intensità da giustificare il ricorso ad una pena rieducativa.

Per accogliere senza riserve l’idea di un nesso tra desistenza e funzione rieducativa della pena, sarebbe però necessario, attribuire maggiore rilievo alla valutazione di meritevolezza dei motivi del recesso: in altri termini, la desistenza volontaria dovrebbe assumere rilevanza solo qualora fosse espressione di un autentico ravvedimento, e non anche quando fosse semplicemente libera da costrizioni esterne.

Si ha desistenza volontaria finché l’agente recede da un’azione che non ha ancora completato il suo iter esecutivo; mentre si ha recesso attivo tutte le volte in cui l’azione criminosa si è compiutamente realizzata, ma l’agente riesce a impedire il verificarsi dell’evento lesivo.

 

Il requisito della volontarietà

Per essere efficaci, sia la desistenza sia il pentimento operoso devono verificarsi volontariamente. Secondo la quasi unanime opinione della dottrina e della giurisprudenza, l’accertamento del requisito della volontarietà prescinde dal giudizio sulla meritevolezza dei motivi che inducono l’agente a mutare proposito.

Cioè non si pretende che la rinuncia all’azione criminosa sia espressione di un autentico ravvedimento, ma ci si appaga di verificare che la scelta dell’agente non sia imposta da circostanze esterne che obiettivamente ostacolano la consumazione del delitto.

 

Tentativo e attentato

L’attentato è una tecnica di costruzione della fattispecie penale utilizzata soprattutto nel settore dei delitto contro la personalità dello Stato e, al contempo, una categoria dogmatica ottenuta per astrazione delle caratteristiche comuni alle singole fattispecie disciplinate.

In mancanza di una disposizione di parte generale che lo regoli, ci si chiede se il delitto di attentato punisca già l’attività preparatoria, oppure condizioni la soglia della rilevanza penalistica alla presenza degli elementi strutturali del tentativo.

Sotto il codice Zanardelli, nessuno dubitava in dottrina della completa omogeneità concettuale e funzionale del tentativo e dell’attentato: solo gli atti esecutivi potevano configurare sia nell’uno o altro tipo delittuoso.

Il codice Rocco ha fatto retrocedere la soglia della punibilità ad uno stadio precedente ed ha equiparato a livello di attività preparatoria, la punibilità del tentativo e dell’attentato.

 

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