Le due ipotesi di desistenza e di recesso (art. 56 co. 3 e 4) si verificano quando il soggetto, dopo aver compiuto atti costituenti un tentativo punibile, muta proposito ed opera in modo che il delitto non si perfezioni. Tale delitto, quindi, non si completa non per fattori estranei, ma per mutata volontà del soggetto.
Sul complesso fondamento politico-sostanziale di tali istituti si confrontano diverse teorie, senza però che nessuna di esse prevalga, dal momento che, come è pluridimensionale il fondamento della pena, così è pluridimensionale il fondamento della rinuncia:
- per la teoria generalpreventiva, la ratio dei due istituti è di creare, attraverso la promesso di impunità , un’incentivazione ad abbandonare la condotta criminosa.
- per la teoria specialpreventiva, la ratio sta nella scarsa probabilità di altre ricadute nel delitto e, quindi, nella non necessità del ricorso alla pena rieducativa.
- per la teoria retributivistica, la ratio sta nella meritevolezza dell’impunità per il libero ritorno al diritto.
Circa il fondamento tecnico-dogmatica, invece, la teoria dominante è quella della tipicità del tentativo, discutendosi però se la desistenza costituisca causa di estinzione o causa sopravvenuta di non punibilità del tentativo.
 Circa il profilo oggettivo:
- la desistenza si ha quando l’agente rinuncia a compiere gli ulteriori atti che poteva ancora compiere perché il reato si perfezionasse. Per desistere, quindi, all’agente basta non continuare nel proprio comportamento.
Solo di regola, tuttavia, la desistenza consiste in un’inerzia, poiché resta compatibile con essa anche un comportamento attivo, che annulli l’azione tenuta (es. rimuovere la bomba dai binari prima del passaggio del treno).
- il recesso, al contrario, si ha quando l’agente, dopo aver posto in essere tutti gli atti causali necessari, impedisce l’evento tenendo una controcondotta che arresta il processo causale già in atto. Per recedere, quindi, all’agente occorre attivarsi per interrompere il processo causale che, altrimenti, sfocerebbe verosimilmente nell’evento.
Solo di regola, tuttavia, il recesso consiste in un azione attiva, poiché l’impedimento dell’evento può anche avvenire con un comportamento passivo (es. chi, dopo aver telefonato il messaggio minatorio, non si reca a ritirare il danaro portato dal soggetto estorto)
Nei reati di evento, quindi, la linea di demarcazione tra desistenza e recesso è data dal non avere o dall’avere l’agente posto in essere il processo causale, corrispondendo alle due diverse situazioni due diversi grado di pericolo per il bene protetto.
 Circa il profilo soggettivo, la desistenza ed il recesso debbono essere posti in essere volontariamente. Secondo l’interpretazione più diffusa, tuttavia, tale volontarietà non deve essere intesa né nel ristretto senso di spontaneità (non occorre che l’abbandono del proposito criminoso sia dovuto a motivi di ordine morale, ben potendo il soggetto esservi indotta a rinunciarvi per paura, superstizione o ribrezzo), né nell’opposto senso di una qualsiasi possibilità di scelta (in questo caso la volontarietà verrebbe meno solo qualora non sussistesse la possibilità di portare a termine l’impresa criminosa, ad esempio, per resistenza della cassaforte), ma nel senso di possibilità di scelta ragionevole. Tale volontarietà , quindi, viene meno allorché la continuazione dell’impresa, pur se materialmente possibile, presenta svantaggi o rischi tali da non potersi attendere da persona ragionevole.
Circa gli effetti:
- la desistenza comporta l’impunità del soggetto per il delitto tentato, salva la responsabilità per un reato diverso se gli atti compiuti ne integrano gli estremi.
- il recesso comporta una diminuzione della pena stabilita per il delitto tentato, tuttavia, se per recedere l’agente compie un altro reato, egli risponde anche di questo.