Nel 1996 dopo un lungo iter di lavori parlamentari iniziati alla fine degli anni settanta, il legislatore italiano è intervenuto sulla materia dei reati sessuali la cui configurazione risaliva al testo originario del Codice Rocco. La legge, fortemente voluta dai gruppi femministi, venne approvata prima della fine della XII legislatura, con una larghissima maggioranza parlamentare.
La l. 20 febbraio ’96, n. 66 ha però ricevuto scarse approvazioni in dottrina per le vaste zone d’ombra che la caratterizzano, attribuendole al massimo l’importanza del messaggio politico. L’esigenza della riforma era segnalata da rilievi strettamente giuridici e rilievi di tipo criminologico. Per quanto riguarda i primi si rilevava una anacronistica collocazione delle norme nel titolo IX (moralità pubblica e buon costume), la libertà sessuale non era il bene primario ma subordinato alla tutela dei valori della collettività. Si criticava il binomio congiunzione carnale – atti di libidine violenti. Si criticava il basso livello delle comminatorie penali. Per quanto riguarda i secondi, si rilevava una crescita del fenomeno a partire dagli anni settanta. Infine vi erano i rilievi politici: necessità di trasmettere alla società un messaggio di promozione della libertà e dignità della persona umana. La legge come simbolo e testimonianza tangibile della maturazione dell’immagine autonoma della donna nella società, e pieno ed effettivo riconoscimento dei suoi diritti.
È facile intuire però come l’effettivo contenuto della riforma, nonostante i suoi motivi ispiratori, è stato modesto e deludente rispetto alle aspettative maturate. Il prodotto finito si presenta più come un messaggio simbolico che come un rivoluzionario sistema normativo.
E questo perché non c’è stato un dibattito parlamentare tecnicamente apprezzabile, a causa della necessità di arrivare a tutti i costi ad una legge in materia, qualunque essa fosse, e non la migliore possibile.