Sul tema delle riserve nei trattati vi è stata, a partire dal secondo dopoguerra, una sensibile evoluzione della prassi internazionale.

La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del trattato o di accettarle con talune modifiche oppure secondo una determinata interpretazione (c.d. dichiarazione interpretativa); cosicché tra lo Stato autore della riserva e gli altri Stati contraenti l’accordo si forma solo per la parte non investita dalla riserva.

È stata fatta in dottrina una distinzione tra dichiarazioni interpretative qualificate o condizionate, equivalenti in tutto e per tutto alle riserve, e mere dichiarazioni interpretative: queste ultime consisterebbero nella sola proposta di una determinata interpretazione.

La riserva ha senso nei trattati multilaterali, nei trattati bilaterali lo Stato che non vuole assumere certi impegni non ha che da proporre alla controparte di escluderli dal testo.

L’istituto della riserva ha lo scopo di facilitare la più larga partecipazione ai trattati multilaterali.

Secondo il diritto internazionale classico la possibilità di apporre riserve doveva essere tassativamente concordata nella fase della negoziazione, e quindi doveva figurare nel testo del trattato predisposto dai plenipotenziari.

Due erano i modi attraverso i quali si prevedeva la possibilità di apporre riserve: o i singoli Stati dichiaravano al momento della negoziazione di non voler accettare alcune clausole e quindi nel testo del trattato si faceva menzione di tale riserva; oppure il testo prevedeva genericamente la facoltà di apporre riserve al momento della ratifica o dell’adesione, ed in tale momento ciascuno Stato decideva se avvalersi o meno di una simile facoltà.

La formulazione di riserve non previste nel testo impediva, secondo la dottrina classica, la formazione del consenso, comportava pertanto l’esclusione dello Stato autore della riserva dal novero degli Stati contraenti.

Oggi si è verificata una notevole evoluzione nella disciplina dell’istituto; una tappa fondamentale in siffatta evoluzione fu segnata dal parere 28.5.1951 della Corte Internazionale di Giustizia: l’Assemblea chiese alla Corte se, non prevedendo la Convenzione sul genocidio la facoltà di apporre riserve, gli Stati potessero ugualmente procedere alla formulazione di riserve al momento della ratifica.

La Corte affermò che una riserva può essere formulata all’atto della ratifica anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato purché essa sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato.

La Corte poi aggiunse che un altro Stato contraente può contestare la riserva, sostenendone appunto l’incompatibilità con l’oggetto e lo scopo del trattato, nel qual caso, se non si raggiunge un accordo sul punto, il trattato non può ritenersi esistente nei rapporti tra lo Stato contestante e lo Stato autore della riserva.

La Convenzione di Vienna codifica il principio che una riserva può essere sempre formulata purché non sia espressamente esclusa dal testo del trattato e purché non sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato medesimo.

Essa stabilisce inoltre che la riserva, quando non sia prevista nel testo del trattato, possa essere contestata da un’altra parte contraente; ed aggiunge che, se tale contestazione od obiezione non è manifestata entro dodici mesi dalla notifica della riserva alle altre parti contraenti, la riserva si intende accettata.

L’obiezione ad una riserva non impedisce che questa esplichi i suoi effetti tra lo Stato che la formula e lo Stato obiettante se lo Stato obiettante non abbia espressamente e nettamente manifestato l’intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti tra i due Stati.

Si discute, in tema di inammissibilità delle riserve, dei rapporti tra il criterio (oggettivo) della contrarietà all’oggetto ed allo scopo del trattato e quello (soggettivo) dell’obiezione di un’altra Parte contraente.

A nostro avviso, se sulla questione dell’ammissibilità è chiamato a pronunciarsi un giudice, sia esso internazionale od interno, esso potrà decidere autonomamente, ovviamente con effetti limitati al caso di specie, dato che il principio fondamentale in tema di apponibilità di riserve non previste dal trattato è per l’appunto quello della conformità all’oggetto ed allo scopo del trattato medesimo.

Ciò con l’unica eccezione, per quanto riguarda il giudice interno, che esso dovrà tener conto delle riserve e delle obiezioni formulate dagli organi costituzionalmente competenti del proprio Stato.

Finché un giudice non è chiamato a pronunciarsi, è opinione comune, confortata dalla prassi, che si debba comunque tenere conto delle obiezioni, o della mancanza di obiezioni, alla riserva, da parte degli altri Stati contraenti.

Anche dopo la Convenzione di Vienna la disciplina delle riserve ha continuato ad evolversi.

La prassi internazionale successiva ha ammesso che le obiezioni alle riserve possano avere gli effetti più vari, da quello diretto ad impedire la formazione dell’intero accordo tra Stato riservante e Stato obiettante, fino ad un effetto meramente precauzionale o addirittura solo morale.

Altre norme importanti della Convenzione sono state innovate, ad es. riconoscendosi la possibilità che uno Stato formuli riserve in un momento successivo rispetto a quello in cui aveva ratificato il trattato purché nessuna delle altre parti contraenti sollevi obiezioni contro il ritardo.

La tendenza innovatrice più significativa si ricava dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani: trattasi della tendenza a ritenere che, se lo Stato formula una riserva inammissibile, tale inammissibilità non comporta l’estraneità dello Stato stesso rispetto al trattato ma l’invalidità della sola riserva; quest’ultima dovrà pertanto ritenersi come non apposta (utile per inutile non vitiatur).

La giurisprudenza della Corte europea riguarda però la Convenzione europea dei diritti umani.

Ogni estensione ad altri tipi di trattati è prematura.

Quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al trattato concorrono più organi, può darsi che l’apposizione di una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli altri.

Che cosa succede se il Governo non tiene conto di una riserva decisa dal Parlamento o formula una riserva che il Parlamento non ha voluta?

Per limitarci al sistema italiano, vi sono contrastanti giudizi dottrinali, sostenendosi da alcuni che il Governo possa, da altri che il Governo non possa formulare riserve non previste dalla legge di autorizzazione (l’ipotesi che il Governo non tenga conto di una riserva formulata dal Parlamento non è mai stata discussa, mai essendosi essa verificata).

I sostenitori della prima tesi si ispirano dichiaratamente al fatto che il Governo sia il gestore dei rapporti internazionali; i sostenitori della seconda tesi muovono dalla necessità che la collaborazione tra Parlamento e Governo, voluta dall’80 Cost., sia effettiva.

Il problema si risolve solo se si tiene ben presente la distinzione tra formazione e manifestazione della volontà dello Stato, da un lato, e responsabilità del Governo di fronte al Parlamento, dall’altro.

Sotto il primo profilo, una riserva è valida sia che essa venga formulata autonomamente dal Parlamento, sia che essa venga formulata autonomamente dal Governo (dovendo concorrere ai fini della stipulazione del trattato le volontà di entrambi gli organi).

Per quanto riguarda il profilo della responsabilità (politica o addirittura penale) del Governo, e dei suoi membri, di fronte al Parlamento, se il Governo decide di discostarsi in tema di riserve da quanto deliberato dal Parlamento, se la decisione, magari opportuna, non è presa dopo che il Parlamento sia stato informato, e se infine non si tratta di riserve dal contenuto del tutto tecnico o minoris generis, vi è certamente materia perché scattino i meccanismi di controllo del Parlamento, anche i meccanismi estremi (voto di sfiducia, messa in stato di accusa) sull’operato dell’Esecutivo.

La riserva aggiunta dal Governo e dichiarata all’atto del deposito della ratifica, essendo valida per il diritto costituzionale, lo sarà anche per il diritto internazionale.

Nel caso, abbastanza teorico, di riserva contenuta nella legge di autorizzazione ma di cui il Governo non tenga conto e che quindi il Governo medesimo non dichiari all’atto del deposito della ratifica, troverà applicazione la regola relativa alla competenza a stipulare: per la parte coperta dalla riserva sarà configurabile una violazione grave del diritto interno e dovrà quindi ritenersi che lo Stato non resti impegnato per detta parte se e finché il Parlamento non revochi espressamente o implicitamente la riserva.

 

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