Due sono i principi di diritto internazionale generale che si sono andati formando per consuetudine in materia di trattamento degli stranieri.
Il primo prevede che allo straniero non possano imporsi prestazioni, e più in generale non possano richiedersi comportamenti che non si giustifichino con un sufficiente attacco dello straniero stesso (o dei suoi beni) con la comunità territoriale.
L’altro principio di carattere consuetudinario sancisce il c.d. obbligo di protezione da parte dello Stato territoriale: lo Stato deve predisporre misure idonee a prevenire e a reprimere le offese contro la persona o i beni dello straniero, l’idoneità essendo commisurata a quanto di solito si fa per tutti gli individui (sudditi quindi compresi) in uno Stato civile, cioè in uno Stato “il quale provveda normalmente ai bisogni di ordine e sicurezza della società sottoposta al suo controllo” (Quadri).
Per quanto concerne le misure preventive, è ovvio che esse debbano essere adeguate alle circostanze relative ad ogni singolo caso concreto.
Per quanto concerne le misure repressive, occorre che lo Stato disponga di un normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo straniero possa far valere le proprie pretese ed ottenere giustizia: chiamasi appunto diniego di giustizia l’eventuale illecito dello Stato in questa specifica materia.
Tale illecito si ha quando la giustizia è negata per difetto di organizzazione giudiziaria, tenuto conto, come modello, dell’amministrazione della giustizia predisposta da uno Stato medio.
Diversa è la situazione per ciò che concerne la protezione dei beni dello straniero, dato che, se si escludono alcune norme convenzionali, i beni del cittadino possono legittimamente esser sacrificati dal punto di vista del diritto internazionale.
Per quanto riguarda gli investimenti stranieri, si tratta di fare una sintesi tra le posizioni dei Paesi in sviluppo, tendenzialmente favorevoli all’assoluta libertà dello Stato territoriale, e le posizioni dei Paesi industrializzati, tendenzialmente favorevoli alla massima protezione degli investimenti stranieri.
Secondo la Carta dei diritti e doveri economici degli Stati ogni Stato sarebbe libero di disciplinare gli investimenti “in conformità alle sue leggi e regolamenti ed alle priorità ed obbiettivi nazionali di politica economica e sociale” e di adottare tutte le misure necessarie affinché siffatta disciplina sia rispettata dagli stranieri.
Una simile regola può anche essere considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale in materia di investimenti, a patto però che la libertà dello Stato, che essa sembra sancire senza alcun limite, non sia spinta fino al punto di negare un’equa remunerazione del capitale straniero.
Nella materia del trattamento degli investimenti stranieri va inquadrato il problema della disciplina internazionalistica delle espropriazioni e delle altre misure restrittive di proprietà, diritti ed interessi degli stranieri.
La prassi in materia risale alla fine della prima guerra mondiale, con le grandi nazionalizzazioni sovietiche.
Un contributo interessante all’argomento è dato dalla prassi del Tribunale Iran-Stati Uniti (Iran-US Claims Tribunal), istituito nel 1981 proprio per conoscere dei ricorsi dei rispettivi cittadini contro le misure prese nei confronti dei loro beni, diritti ed interessi.
Nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di espropriare e nazionalizzare beni stranieri, e neppure vi è controversia circa la questione se il passaggio alla mano pubblica debba essere sorretto da motivi di pubblica utilità, questione che acquista esclusivamente rilievo in caso di espropriazione di un singolo bene (e che in questo caso va risolta affermativamente) dato che nelle nazionalizzazioni il pubblico interesse è in re ipsa.
L’unica, importante questione è quella che riguarda l’indennizzo.
Lo Stato espropriante è tenuto, per il diritto internazionale generale, a corrispondere un indennizzo, e ciò anche con riguardo alle nazionalizzazioni: nessuno Stato allorché ha proceduto a delle nazionalizzazioni si è mai schierato apertamente contro l’obbligo dell’indennizzo o ha apertamente dichiarato di non volerlo adempiere; l’obbligo medesimo è riconosciuto dalla Dichiarazione di principi sulla sovranità permanente sulle risorse naturali; infine la corresponsione dell’indennizzo si ricollega a quella equa remunerazione del capitale che abbiamo visto costituire l’unico limite alla libertà dello Stato in materia di investimenti stranieri.
Molta confusione ed una grande incertezza regnano nella prassi circa le modalità di pagamento dell’indennizzo e soprattutto circa il quantum dovuto.
La tesi di alcuni Stati industrializzati, secondo cui l’indennizzo dovrebbe sempre essere “pronto, adeguato ed effettivo” (formula coniata dagli Stati Uniti nel periodo tra le due guerre mondiali), può essere condivisa con riguardo all’espropriazione di singoli beni per pubblica utilità, ma essa non è mai riuscita ad affermarsi con riguardo alle nazionalizzazioni.
L’indennizzo viene corrisposto nei modi più vari e spesso è oggetto di transazione tra lo Stato nazionalizzante e lo Stato di appartenenza degli stranieri espropriati (c.d. accordi di compensazione globale o lump-sum agreements, mediante i quali il primo Stato corrisponde una somma forfetaria al secondo, e questo resta l’unico competente a decidere circa la distribuzione della somma tra i soggetti colpiti) o direttamente tra il primo e le compagnie espropriate.
È stato poi sostenuto da qualche Governo (dal Governo democratico cileno all’epoca della nazionalizzazione del rame e da quello iraniano innanzi al citato Tribunale Iran-Stati Uniti) che l’indennizzo debba sì essere corrisposto onde non produrre un indebito arricchimento a danno delle compagnie straniere espropriate, ma che nel calcolarlo si debba anche tenere conto dell’indebito arricchimento derivato alle compagnie medesime dai superprofitti conseguiti per effetto dello sfruttamento delle risorse locali.
Ad un ordine di idee non dissimile si ispira la Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, che prevede che lo Stato nazionalizzante determini l’indennità sulla base delle sue leggi, dei suoi regolamenti e di ogni circostanza che esso giudichi pertinente.
Se l’accordo interviene tra gli Stati, esso può anche sacrificare, in vista di altri vantaggi, gli interessi del privato espropriato: è questa una mera applicazione del principio secondo cui ogni Stato è libero di tutelare o meno il proprio suddito che abbia subito un torto all’estero e comunque di tutelarlo nel modo e nei limiti che considera più opportuni.
Si riallaccia al tema della protezione degli interessi patrimoniali degli stranieri il problema del rispetto dei debiti pubblici con questi contratti dallo Stato predecessore, nei casi (distacco, smembramento, incorporazione, mutamento radicale di regime, etc.) di mutamento di sovranità su di un territorio: nella prassi più recente, particolarmente in quella relativa allo smembramento dell’Unione sovietica e della Cecoslovacchia, può notarsi la tendenza all’accollo da parte degli Stati subentranti.
La disciplina della materia tende ad ammettere la successione nei debiti localizzabili (ossia contratti nell’esclusivo interesse del territorio oggetto del mutamento di sovranità) e non nei debiti generali dello Stato predecessore, salvo, in quest’ultimo caso, un accollo convenzionalmente stabilito.
Nessun limite il diritto internazionale consuetudinario prevede per quanto riguarda l’ammissione e l’espulsione degli stranieri.
Si ritiene, è vero, che nel caso dell’espulsione questa debba avvenire con modalità che non risultino oltraggiose nei confronti dello straniero, e che allo straniero medesimo debba concedersi un lasso di tempo ragionevole per regolare i propri interessi ed abbandonare il Paese, ma tutto ciò non è che un’applicazione del dovere di protezione, ed in particolare dell’obbligo di predisporre misure preventive delle offese alla persona dello straniero ed ai suoi beni.
Limiti particolari in tema di espulsione di stranieri derivano però dalle convenzioni sui diritti umani.
Ad es. la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti obbliga gli Stati a non estradare o espellere una persona verso Paesi in cui questa rischia di essere sottoposta a tortura.
Lo stesso obbligo è stato ricavato implicitamente, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dal divieto di praticare la tortura, previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La Corte ha anche ricavato l’obbligo di non espellere dall’art. 8 della Convenzione, che prevede il rispetto della vita privata e familiare, quando l’espulsione comporterebbe una ingiustificata e sproporzionata rottura dell’unità familiare.
Numerosi sono poi gli accordi internazionali – le c.d. convenzioni di stabilimento – con cui ciascuna Parte contraente si obbliga a riservare alle persone fisiche e giuridiche, appartenenti all’altra o alle altre Parti, condizioni di particolare favore, sia in tema di ammissione sia per quanto concerne l’esercizio di attività imprenditoriali, professionali etc.
Fini di parificazione persegue la cittadinanza europea: essa comporta il diritto di circolare liberamente nell’ambito dell’Unione europea, di partecipare alle elezioni locali nello Stato membro in cui si risiede e di votare nello stesso Stato per i rappresentanti al Parlamento europeo.
Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri compie un illecito internazionale nei confronti dello Stato al quale lo straniero appartiene.
Lo Stato dello straniero “maltrattato” potrà esercitare la protezione diplomatica, ossia assumere la difesa del proprio suddito sul piano internazionale: esso potrà agire con proteste, proposte di arbitrato, minacce di (o ricorso a) contromisure contro lo Stato territoriale, al fine di ottenere la cessazione della violazione ed il risarcimento del danno causato al proprio suddito.
Prima però che lo Stato agisca in protezione diplomatica occorre che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale, purché adeguati ed effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni.
Finché siffatti rimedi esistono, le norme sul trattamento degli stranieri non possono neppure considerarsi violate (natura sostanziale della regola del previo esaurimento).
L’istituto della protezione diplomatica ha carattere residuale altresì nel senso che, una volta esauriti i ricorsi interni ed avvenuta la violazione, è anche necessario che non vi siano rimedi internazionali efficaci, azionabili dagli stessi stranieri lesi.
Lo Stato che agisce in protezione diplomatica esercita un diritto di cui esso, e non il suo suddito, è, dal punto di vista dell’ordinamento internazionale, titolare: ciò comporta che esso può in ogni momento rinunciare ad agire, sacrificare l’interesse del suddito leso ad altri interessi, transigere, etc.
Altro è il problema se, dal punto di vista del diritto interno, il Governo non sia obbligato, nei confronti dei suoi sudditi, ad esercitare la protezione diplomatica; la giurisprudenza interna è, nel silenzio di norme legislative o regolamentari, orientata in senso negativo.
L’istituto della protezione diplomatica è oggetto di contestazione, limitatamente ai rapporti economici facenti capo a stranieri, da parte degli Stati in sviluppo, che si rifanno sostanzialmente alla dottrina Calvo, dottrina secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di esclusiva competenza dei tribunali dello Stato locale.
Ad una simile dottrina si sono sempre ispirati gli Stati latino-americani, inserendo nei contratti con imprese straniere una clausola di rinuncia da parte di queste ultime alla protezione del proprio Stato (c.d. clausola Calvo).
Alla stessa dottrina si ispira la Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, quando a proposito delle nazionalizzazioni di beni stabilisce che “ogni controversia relativa all’indennizzo dovrà essere regolata in conformità alla legislazione interna dello Stato nazionalizzante e dai Tribunali di questo Stato, a meno che tutti gli Stati interessati non convengano liberamente di ricercare altri mezzi pacifici [di soluzione della controversia] sulla base dell’eguaglianza sovrana degli Stati medesimi”.
Nessuno può vietare allo Stato dello straniero di protestare, di proporre arbitrati o di minacciare rappresaglie (anche in presenza di una clausola Calvo, dato che con la protezione diplomatica lo Stato fa valere un diritto suo proprio).
L’istituto della protezione diplomatica è in declino: si diffondono infatti nella prassi gli strumenti diretti a garantire i privati contro i rischi relativi agli investimenti all’estero.
Uno degli strumenti adoperati è, ad es., una sorta di assicurazione accordata ai propri nazionali dallo Stato esportatore e che funziona in concomitanza con una convenzione conclusa con il Paese importatore; nella convenzione è prevista la surroga dello Stato esportatore che abbia indennizzato il privato, in tutti i reclami (di diritto interno) che quest’ultimo avrebbe potuto proporre in connessione con l’investimento assicurato.
Da segnalare è poi l’attività dell’ICSID (Centro internazionale per il regolamento delle controversie in materia di investimenti): al Centro fa capo un sistema di conciliazione ed arbitrato per le controversie tra privati investitori e Stati che ricevono l’investimento.
Acquista grande importanza in tema di trattamento degli stranieri il ruolo del giudice interno: per quanto possa sembrare a prima vista paradossale, i giudici dello Stato territoriale possono evitare che lo straniero ricorra alla protezione del proprio Stato ed essere in grado di tutelare lo straniero più del suo Stato nazionale.
La protezione diplomatica spetta infatti agli organi del c.d. potere estero, di solito organi del Potere esecutivo, e può essere fortemente condizionata da motivi politici attinenti alle relazioni internazionali.
La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato nazionale sia a difesa di una persona fisica sia a difesa di una persona giuridica, in particolare di una società commerciale.
Però la nazionalità delle persone giuridiche non è un concetto definito e definibile quanto quello delle persone fisiche, dato che non sempre risulta con chiarezza dalle legislazioni interne quale collegamento determini l’appartenenza di una persona giuridica ad un certo Stato.
Per quanto concerne le società commerciali, ci si chiede se, ai fini dell’esercizio della protezione diplomatica, si debba aver riguardo a criteri formali o legali, come il luogo di costituzione o della sede principale, ai quali è tradizionalmente legato il concetto di nazionalità delle persone giuridiche, oppure a criteri sostanziali: a favore della prima tesi si è nettamente pronunciata la Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza relativa all’affare della Barcelona Traction, Light and Power co., Ltd.
Questo caso riguardava una società di nazionalità canadese, la Barcelona Traction, che era stata dichiarata fallita in Spagna, dove aveva esercitato, insieme ad altre società ausiliarie, attività di produzione e distribuzione di energia elettrica.
La Corte ha escluso che il Belgio, Stato nazionale della maggior parte degli azionisti, avesse titolo per agire in protezione diplomatica per i danni causati dalla dichiarazione di fallimento e da una serie di provvedimenti a questa conseguenziali, dichiarazione e provvedimenti di cui si lamentava da parte belga la contrarietà a principi fondamentali di giustizia e che si assumeva fossero stati dolosamente preordinati al fine di trasferire, senza indennizzo, i beni della Barcelona Traction in mano spagnola.
È dubbio, in mancanza di una prassi certa, se la regola secondo cui solo lo Stato nazionale della società può esercitare la protezione diplomatica sia senza eccezioni.
È dubbio, in particolare, se la protezione sia esercitabile dallo Stato al quale appartiene l’azionista, persona fisica o giuridica, quando la società abbia la stessa nazionalità dello Stato contro il quale la protezione dovrebbe essere esercitata: questa seconda ipotesi è molto importante ove si consideri che gli investimenti all’estero da parte delle grandi multinazionali avvengono spesso proprio attraverso la costituzione di società locali di cui la società madre ha il controllo.