Questo dato ingenera immediatamente grossi problemi, inerenti tanto allo svolgimento di attività diverse da quelle funzionali al fine di religione o di culto, quanto all’utilizzazione delle risorse per fini diversi da quelli per cui si giustifica la creazione della figura speciale degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
Quando si verificano ipotesi del genere, non sarebbe giusto mantenere il principio del ritiro dei controlli statuali dagli enti confessionali.
Occorre cioè accertare “quali caratteristiche debba presentare una data attività perché possa essere considerata diretta al raggiungimento” del fine di religione o di culto.
La disciplina speciale riassunta nella formula ente ecclesiastico presuppone certo che sia acclarato il fine di religione o di culto, ma si applica effettivamente solo in quanto all’accertamento di quel fine si accompagna il compimento di specifiche attività e non di altre, che evidentemente sottostanno ad altri tipi di disciplina.
L’ordinamento è disposto a considerare espressione di libertà religiosa o di identità collettiva che si traduce in una tendenza religiosa solo quell’attività che è funzionale in modo esclusivo a finalità religiosa, e non anche quella suscettibile di valutazione e di rigorosa disciplina rispetto al conseguimento di ulteriori e concorrenti finalità.
L’art. 2 c. 2° della legge n. 222 stabilisce che il fine di religione o di culto deve essere accertato “in conformità alle disposizioni dell’art. 16”, il quale elenca le attività che costituiscono il criterio-guisa per dedurre l’esistenza del fine indicato: esse sono, in relazione alla Chiesa cattolica quelle dirette “all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione dei ministri di culto, a scopi missionari e di evangelizzazione cristiana, all’educazione cristiana”.
Questo non vuol dire che l’organismo che chiede il riconoscimento come ente ecclesiastico non possa svolgere anche altre attività, ossia attività “di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro”, bensì solamente che tali attività “svolte dagli enti ecclesiastici sono soggette … alle leggi dello Stato concernenti tali attività”.
Nel primo caso, va detto che l’attività economica svolta da un ente ecclesiastico, se ed in quanto risponda al requisito della obiettiva economicità, può configurarsi come attività d’impresa, fa acquistare cioè al soggetto che la esercita lo status di imprenditore.
Ebbene, dall’art. 16 lett. b) della legge n. 222/1985 si evince che l’ente ecclesiastico ben può svolgere attività di impresa commerciale, ma per queste attività non vale la disciplina speciale prevista dalla legge stessa, bensì quella generale concernente l’impresa.
Il fatto è che la qualifica di ente ecclesiastico e quella, concorrente in capo allo stesso soggetto, di imprenditore, “rappresentano la sintesi verbale di due regimi giuridici”.
L’art. 7 n. 3 dell’Accordo 1984, che stabilisce la sottoposizione degli enti ecclesiastici alla legge dello Stato, si preoccupa di precisare che tale sottoposizione deve avvenire “nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti”.
Infine, la disciplina dell’attività d’impresa impedisce che sia invocabile la disciplina speciale realizzata per gli enti confessionali proprio nella sua funzione centrale, quella cioè che consente i controlli dell’autorità ecclesiastica su ciascun atto di straordinaria amministrazione posto in essere dai rappresentanti degli enti confessionali, con le conseguenze indicate in caso di mancata acquisizione di questi atti di controllo.
L’ente ecclesiastico, in quanto svolga un’attività considerata di utilità sociale, può richiamarsi alla disciplina favoritivi prevista per le organizzazioni di questo tipo, disciplina che consente di svolgere in condizioni di particolare favore attività di natura commerciale, se ed in quanto i proventi di detta attività sono destinati all’auto-finanziamento dell’ente per supportare l’attività funzionale al perseguimento dell’indicata finalità socialmente utile.
Se ed in quanto un ente ecclesiastico decide di fruire di tale disciplina favoritivi, non potrà certo sottrarsi ai controlli cui devono sottostare tutte le organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Anche qui si pone allora l’ipotesi di un eventuale conflitto tra disciplina statualistica e identità dell’ente ecclesiastico.
Abbiamo detto che si configura un interesse pubblico alla coerenza istituzionale dell’ente confessionale, cioè a che l’ente ecclesiastico non si dedichi a pratiche trasformistiche, non utilizzi cioè la sua forma speciale per operazioni che nulla hanno a che vedere con quelle che giustificano la forma speciale: che insomma conservi una sua “coerenza istituzionale”.
De iure condendo, come si suol dire, viene suggerito che, attraverso adeguate forme di pubblicità, l’acquisto di un bene effettuato dall’ente venga portato a conoscenza dell’autorità amministrativa, la quale entro un termine breve potrebbe dichiarare invalido l’acquisto per illegittimità od inopportunità, per rapporto alla coerenza istituzionale dell’ente; se non lo facesse, in virtù del principio del silenzio-assenso la valutazione s’interebbe positiva.
Un’area più ristretta di specialità è prevista per determinati organismi riconducibili alla categoria canonistica della associazioni pubbliche di fedeli.
Sono insomma gruppi che sorgono non già dalla libera e spontanea esigenza di aggregazione che si sviluppa fra i soggetti facenti parte dell’ordinamento bensì dal vertice; proprio questo loro carattere non si applica la disciplina integrale riservata dal codice civile alle associazioni. Questa riserva da una parte consente all’autorità ecclesiastica di esercitare sugli organi dell’ente i controlli e la vigilanza necessari per assicurare la loro piena rispondenza alla natura ed ai compiti della Chiesa, dall’altra comporta che le situazioni soggettive sorgenti dal rapporto tra membro e gruppo vengono considerate estranee all’ordinamento statuale, e quindi non sono tutelabili attraverso gli organi giudiziari di questo ordinamento.