In relazione ai licenziamenti disciplinari la legge 183 del 2014 prevedeva che la reintegrazione fosse limitata dal legislatore delegato a specifiche fattispecie. Al fine di individuare tali fattispecie, il legislatore delegato ha ritenuto di fare ancora riferimento all’elemento del “fatto” contestato. In particolare, il decreto legislativo 23 del 2015 stabilisce che, nelle “ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa”, la reintegrazione è disposta soltanto ove “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

In tal ipotesi, trova applicazione una tutela reale attenuta. Il giudice, infatti, nell’annullare il licenziamento, condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nonché al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Dall’importo dell’indennità risarcitoria va detratto non solo l’aliunde perceptum, ma anche l’aliunde percipiendum.

Quest’ultimo è individuato in modo restrittivo, facendo riferimento a ciò che il lavoratore “avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro”. In ogni caso, viene fissato un importo massimo di tale indennità pari a 12 mensilità della retribuzione, con la opportuna specificazione che tale importo copre esclusivamente il periodo dal licenziamento sino alla pronuncia di reintegrazione. Il datore di lavoro è tenuto a versare la contribuzione dovuta per l’intero periodo dal licenziamento alla effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.

Non viene, però, precisato se, ai fini del calcolo e del versamento di tali contributi, si debba tenere conto dei contributi eventualmente già versati per lo svolgimento di altre attività lavorative svolte dal lavoratore nel periodo oggetto di estromissione. Al lavoratore, infine, è riconosciuta la facoltà di richiedere l’indennità sostitutiva della reintegrazione. Per quanto riguarda l’individuazione delle specifiche ipotesi in cui trova applicazione la disciplina ora descritta, va evidenziato, anzitutto, come il legislatore delegato abbia attribuito rilevanza all’insussistenza del “fatto materiale”.

Il che conferma la conclusione in ordine alla irrilevanza dell’esistenza o no dell’elemento della colpa o del dolo. Inoltre è espressamente previsto che la reintegrazione non può discendere da una “valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, poiché la mancanza di proporzionalità determina esclusivamente l’applicazione della tutela indennitaria. Infine, è previsto che l’applicazione della reintegrazione non consegue semplicemente “all’insussistenza del fatto materiale contestato”, bensì alla “diretta dimostrazione” di tale “insussistenza”.

Tale formulazione ha provocato un contrasto di interpretazioni: da un lato, si sostiene che essa sia priva di particolare rilievo, poiché, non essendo stata modificata la disposizione dell’articolo 5 della legge 604 del 1966, la mancata prova da parte del datore di lavoro del “fatto materiale contestato” comporta che esso debba considerarsi processualmente “insussistente”; dall’altro, invece, si sostiene che proprio il riferimento alla “diretta dimostrazione” comporti l’avvenuta inversione dell’onere della prova.

La soluzione di tale questione deve muovere dalla constatazione che la “diretta dimostrazione” della insussistenza del fatto materiale contestato è il presupposto introdotto dal legislatore non perché sia accertato il difetto di giusta causa o di giustificato motivo, bensì perché trovi applicazione la reintegrazione. Ne deriva che: a) resta onere del datore di lavoro provare la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento; b) il mancato adempimento di quell’onere determina il diritto del lavoratore alla tutela indennitaria, ma non è sufficiente a ritenere si sia realizzato il presupposto della “diretta dimostrazione in giudizio” dell’insussistenza del fatto materiale contestato, dalla quale può derivare la reintegrazione; c) l’onere di provare tale ulteriore presupposto, necessario ai fini della reintegrazione, è del lavoratore.

Anche nei confronti della nuova disciplina, è stata mossa la critica che essa possa ingenerare un uso distorto da parte del datore di lavoro. È, quindi, prevedibile che, di fronte ai casi di licenziamento motivato in modo palesemente pretestuoso, la giurisprudenza possa essere indotta a ricorrere all’applicazione di categorie generali, quali l’abuso del diritto o il negozio in frode alla legge, al fine di dare giustizia al caso concreto.

Infine, la reintegrazione non è più prevista nel caso di licenziamento “intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del Codice Civile”, ossia nel caso di licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto prima che tale periodo sia effettivamente scaduto. Tale apparente lacuna potrebbe essere colmata applicando la disciplina dettata per il caso di difetto di giustificato motivo soggettivo.

La tutela risarcitoria ridotta trova applicazione nel caso in cui il licenziamento presenti vizi formali e procedurali, e, precisamente, violi il requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 604 del 1996 o la procedura disciplinare prevista dall’articolo 7 della legge 300 del 1970. In presenza di tali vizi, la misura dell’indennità, anche essa non assoggettata a contribuzione previdenziale, è pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di 2 e un massimo di 12 mensilità.

Resta salva la facoltà del lavoratore di chiedere al giudice l’accertamento della sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele più favorevoli previste in relazione agli altri vizi del licenziamento, quali la nullità, la mancanza di forma scritta, insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo. Non è contemplata la ipotesi di violazione del procedimento prevista dall’articolo 7 della legge 604 del 1966, poiché tale procedimento non trova applicazione al licenziamento dei lavoratori nuovi assunti.

Per i piccoli datori di lavoro sono dettate disposizioni ad hoc dirette ad evitare che la nuova disciplina comporti un irrigidimento o un incremento degli oneri rispetto alla disciplina prevista dall’articolo 8 della legge 604 del 1966. Pertanto, per i dipendenti dei datori di lavoro in questione, al di fuori dell’ipotesi di licenziamento nullo e orale, non è mai prevista la reintegrazione.

Inoltre, l’indennità risarcitoria è stata determinata in misura “dimezzata” rispetto a quella prevista per i lavoratori delle imprese medio-grandi, essendo fissata nella misura di una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio. Infine, per tale indennità è previsto un limite massimo di “sei mensilità”, che scatta già al compimento del sesto anno di servizio. Per quanto riguarda, invece, le organizzazioni di tendenza è eliminata ogni disposizione e trattamento di natura speciale, essendo prevista l’applicazione integrale della nuova disciplina.

Nel caso dei licenziamenti collettivi, le tutele previste per i nuovi assunti sono analoghe a quelle previste per i vecchi assunti, sia nel caso della violazione dell’obbligo della forma scritta, sia in quello della violazione degli adempimenti procedimentali previsti dalla legge. Nel primo caso, quindi, si applica la tutela reale (senza limite massimo per il risarcimento dovuto), nel secondo caso, si applica la tutela indennitaria. Una rilevante innovazione è prevista in relazione alla ipotesi della violazione dei criteri di scelta, che è punita con l’applicazione della tutela indennitaria, mentre, per i vecchi assunti, è prevista la tutela reale con indennizzo limitato.

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