L’ulteriore problema che si è posto agli interpreti è stato quello di definire il contenuto dello sciopero, ovvero i comportamenti materiali capaci di integrare la fattispecie prefigurata dall’art. 40. L’area di lecita praticabilità dello sciopero finisce con l’essere delimitata due volte:
- una prima attraverso la definizione di che cosa si intende per sciopero.
- una seconda tramite la fissazione di limiti all’esercizio del diritto.
 Sotto il primo di tali profili, si sono poste le seguenti questioni:
- stabilire quando si versi in presenza di un’astensione collettiva dal lavoro, da tutti ritenuta necessaria per il perfezionarsi della fattispecie sciopero. L’ovvia risposta a tale questione è stata quella di ritenere sufficiente la partecipazione allo sciopero di un ridotto numero di lavoratori, vale a dire, al minimo, di due.
- stabilire se debba considerarsi sciopero soltanto un’astensione dal lavoro (fatto omissivo), oppure, altresì, comportamenti concretatisi in forme di non collaborazione .
Nell’impostazione tradizionale, si tende a considerare sciopero soltanto ciò che è astensione dal lavoro, seppur comprendendo in tale concetto anche quei comportamenti positivi che l’esperienza ha dimostrato di essere direttamente collegabili con l’effettiva possibilità di esercizio del diritto. Ne segue, quindi, che le forme di agitazione sindacale che non assumano tale carattere, sostanziandosi in una prestazione non regolare del lavoro, fuoriescono dall’ambito dello sciopero e dalla copertura costituzionale dell’art. 40, tornando, di conseguenza, a configurare inadempimenti.
Questo punto di vista, tuttavia, non è facilmente armonizzabile con l’idea, attualmente accettata, che sia sciopero tutto ciò che la prassi sociale dimostra di considerare tale. Ciò che rileva nell’art. 39 come nell’art. 40, infatti, non è lo strumento, bensì il fine in vista del quale esso è conferito all’ordinamento: da qui la necessità di tenere conto di quanto deciso dai titolari degli interessi in ordine alle forme dell’autotutela