Dall’articolo 2094 del Codice Civile, che detta la definizione di lavoro subordinato e non quella di contratto di lavoro subordinato, si desume che quella di collaborare in modo subordinato nell’impresa costituisce un’obbligazione, di cui non viene esplicitamente chiarita l’origine contrattuale. Tale constatazione, però, non è sufficiente a fondare l’ipotesi che il rapporto di lavoro, e l’obbligazione di lavorare, sorgano per effetto di un mero fatto, consistente nell’inserzione del lavoratore nell’impresa.
Una ipotesi siffatta deve essere respinta alla luce dei principi costituzionali e dell’esperienza storica. Sia gli uni che l’altra, infatti, non consentono di ravvisare l’esistenza di una comunione di scopo tra imprenditore e lavoratore e impongono di individuare nel contratto il momento genetico del rapporto di lavoro, essendo sempre e comunque essenziale il consenso di entrambe le parti perché quest’ultimo possa essere instaurato. Discorso diverso è quello di chi evidenzia come la disciplina del rapporto di lavoro si caratterizzi per essere in larga parte sottratta alla disponibilità dell’autonomia privata individuale, essendo dettata dalle disposizioni inderogabili della legge e della contrattazione collettiva.
Tale caratteristica evidenzia come l’autonomia negoziale abbia uno spazio nella regolamentazione del rapporto di lavoro che è certamente ridotto rispetto a quello disponibile per la regolamentazione di altri rapporti contrattuali. Ma quell’autonomia ha e conserva una funzione essenziale per costituire il rapporto di lavoro, e ciò in coerenza con il riconoscimento costituzionale della libertà di lavorare e della libertà di esercitare l’impresa.
Il che risulta oggi con evidenza ancora maggiore, ove si consideri che, quando si tratti di avviare una relazione nella quale sia coinvolta una prestazione di lavoro, l’autonomia individuale ha a disposizione non solo una pluralità di tipi contrattuali diversi da quello di lavoro subordinato, ma può scegliere tra una pluralità ampiamente diversificata di modelli legali, con la facoltà di sottoporre la libera scelta effettuata ad una procedura di certificazione prevista dalla legge.
Né le considerazioni esposte sono contraddette dalla disciplina dettata dall’articolo 2126 del Codice Civile, in relazione alla fattispecie della “prestazione di fatto”. La fattispecie regolata da tale disposizione, infatti, non riguarda l’ipotesi di lavoro prestato senza il consenso di una delle parti, bensì l’ipotesi di lavoro prestato sulla base di un contratto invalido.
Questo articolo, a tutela del lavoratore, prevede che egli conservi tutti i diritti maturati nel periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, stabilendo che per tale periodo “la nullità o l’annullamento del contratto non produce effetti”, con la sola eccezione del caso di nullità derivante dall’illiceità dell’oggetto o della causa. In quest’ultimo caso, peraltro, ove l’illiceità derivi dalla violazione di norme poste a tutela del lavoratore, questi ha comunque diritto alla retribuzione; altrimenti, secondo la giurisprudenza, il lavoratore può soltanto proporre, ai sensi dell’articolo 2041 del codice civile, una richiesta di indennizzo nei confronti del datore di lavoro che, per effetto della prestazione di fatto, abbia ricevuto un “arricchimento senza giusta causa”.