Sul piano delle politiche, quelle sociali si sono concentrate in prevalenza sulla promozione dell’occupazione, più che sulla regolamentazione del rapporto di lavoro. Per contro, una vistosa incidenza sui diritti nazionali del lavoro è esercitata dalle politiche economiche di rigore. Politiche rese ancora più stringenti, a seguito della crisi economica iniziata nel 2008 che ha portato all’adozione:
nel 2011, di sei atti legislativi aventi ad oggetto, tra l’altro, un ulteriore rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio e della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche, la prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici e le misure esecutive per la correzione degli squilibri macroeconomici eccessivi nell’area euro;
nel 2012, del “Fiscal Compact”, ossia dell’accordo con il quale gli Stati membri si sono, tra l’altro, impegnati ad introdurre nei propri ordinamenti l’obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio; nel 2013, di due ulteriori regolamenti diretti, in particolare, al coordinamento e alla sorveglianza rafforzata nei confronti degli Stati membri che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà in relazione alla loro stabilità finanziaria, nonché alla correzione dei disavanzi eccessivi.
L’attuazione di tali politiche impediscono agli stati membri di utilizzare la leva fiscale e della spesa pubblica per sostenere le politiche sociali o per supportare la competitività dei sistemi produttivi. Ne deriva che l’azione sociale di tali stati tenda a contrarsi e, allo stesso tempo, tenda a surrogare la riduzione del sostegno economico al sistema produttivo ricorrendo ad interventi di tipo normativo diretti a consentire il recupero di competitività mediante nuove regole di gestione dei rapporti di lavoro.
In altri casi, importanti riforme del mercato del lavoro sono oggetto di esplicite richieste, o prescrizioni, da parte di istituzioni europee. Anche per questa via passa il processo di redistribuzione della ricchezza tra le nazioni. Così, mentre istituzioni internazionali legano la concessione di aiuti ai paesi in via di sviluppo al vincolo dell’introduzione dei diritti sociali, accade che l’Europea abbia condizionato il proprio sostegno alle economie degli stati membri più colpite dalla crisi alla revisione degli apparati di tutela che essi avevano costruito a favore dei propri cittadini.
In conclusione, non è configurabile nel diritto comunitario un corpus di regole unitario e almeno tendenzialmente completo che possa rappresentare un modello di tutela del lavoro, idoneo ad essere esportato od opposto alle altre economie regionali. Ad oggi, ciò che sembra faticosamente emergere in ambito europeo è una particolare attenzione per il modello (definito della flexicurity), variamente adottato da alcuni stati membri, che hanno saputo coniugare una disciplina più flessibile del rapporto di lavoro con maggiori tutele sul mercato del lavoro.
Ma la trasposizione di quel modello ad altri stati membri resta affidata alle istituzioni di questi ultimi, e solleva delicate problematiche sia per la complessità dell’opera di “ristrutturazione” degli ordinamenti nazionali fondati sulla rigida tutela del posto di lavoro, sia per la ristrettezza delle risorse pubbliche necessarie al fine di finanziare le tutele compensative di tale ristrutturazione.