Ai sensi dell’articolo 1372 del codice civile, il contratto ha forza di legge tra le parti che lo hanno stipulato. Quindi, il contratto collettivo di diritto comune è efficace, dal punto di vista soggettivo, nei confronti delle parti stipulanti (e, cioè, da un lato, le organizzazioni sindacali dei lavoratori e, dall’altro, le associazioni sindacali dei datori di lavoro o direttamente il datore di lavoro), nonché nei confronti dei lavoratori e dei datori di lavoro che alle parti stipulanti hanno conferito mandato.

Inoltre, il contratto collettivo è di regola aperto all’adesione da parte dei datori di lavoro e dei lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti. Di conseguenza, il contratto collettivo è efficace anche nei confronti delle parti del rapporto di lavoro che, pur non essendo iscritte ai sindacati stipulanti, abbiano volontariamente aderito alla disciplina del contratto collettivo, o l’abbiano comunque recepita. Nella prassi, tale recepimento viene solitamente effettuato mediante una esplicita clausola inserita nei contratti individuali di lavoro, con la quale si fa rinvio alla disciplina o al trattamento economico e normativo previsto dal contratto collettivo nazionale del lavoro. Ne deriva che il contratto collettivo di diritto comune non ha efficacia ergma omnes.

Esso, infatti, sia in base al principio di libertà sindacale, sia in base ai principi del diritto comune, non può vincolare i datori di lavoro ed i lavoratori in mancanza di un loro atto di volontà idoneo a manifestare la comune intenzione di accettare che il rapporto di lavoro tra essi intercorrente sia sottoposto alla disciplina del contratto collettivo. Tale conclusione determina una duplice conseguenza. La prima conseguenza è che, nelle realtà ove il sindacato non abbia la forza necessaria per imporre l’applicazione del contratto collettivo, il datore di lavoro ha la possibilità di escludere i propri lavoratori dalle tutele e dalle “conquiste” sociali.

La seconda conseguenza è che le imprese che non applicano il contratto collettivo hanno un vantaggio concorrenziale nei confronti di quelle che, applicandolo, erogano trattamenti economici superiori e hanno maggiori vincoli da rispettare. Da tale vantaggio emerge non solo un rischio per la competitività di questa seconda tipologia di imprese, ma anche un fattore di “indebolimento” per il sindacato dei lavoratori e per la sua azione.

Tali conseguenze sono state valutate negativamente sia dalla giurisprudenza, che dal legislatore, i quali, nei rispettivi ambiti di competenza, hanno posto in essere nel tempo diversi interventi diretti all’obiettivo di estendere l’efficacia soggettiva del contratto collettivo. Tali interventi hanno indubbiamente favorito la diffusa applicazione del contratto collettivo di diritto comune in tutto il territorio nazionale.

La giurisprudenza ha ritenuto che la volontà del datore di lavoro di obbligarsi ad applicare il contratto collettivo possa essere desunta non solo dall’iscrizione all’associazione stipulante o da un esplicito atto di adesione al recepimento del contratto collettivo, ma anche attraverso fatti o comportamenti concludenti. Inoltre, la giurisprudenza ha ritenuto che quando il datore di lavoro stipuli direttamente il contratto collettivo o sia iscritto all’associazione dei datori di lavoro stipulante, egli, stante il divieto di trattamenti collettivi discriminatori, è obbligato ad applicare il contratto collettivo a tutti i suoi dipendenti, anche se non iscritti al sindacato che lo ha sottoscritto.

Il più importante intervento operato dalla giurisprudenza è stato basato su una interpretazione degli articoli 36 della Costituzione e 2099 del Codice Civile che ha portato ad individuare nella retribuzione base prevista dal contratto collettivo il “minimo” di retribuzione dovuto a tutti i lavoratori, anche ove al loro rapporto di lavoro non sia applicabile la disciplina sindacale. Ed infatti il contratto collettivo è stato considerato il parametro più adeguato per determinare quale sia la retribuzione “proporzionata” e “sufficiente” spettante ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione.

Gli orientamenti interpretativi della giurisprudenza, però, offrono soluzioni parziali, in quanto essi possono operare soltanto in presenza di una azione giudiziale. Nell’Italia del secondo dopoguerra, dunque, nonostante gli sforzi della giurisprudenza, il lavoro sottratto alle tutele sindacali aveva ancora dimensioni molto preoccupanti. Il legislatore, dovendo prendere atto dell’impossibilità di attribuire efficacia generale al contratto collettivo in mancanza dell’attuazione del procedimento costituzionale, ha fatto ricorso a tecniche diverse al fine di favorire, comunque, sia pure in modo indiretto, l’estensione delle tutele sindacali. Così, ad esempio, è stato imposto che nei provvedimenti di concessione di benefici pubblici e nei contratti di appalto venga previsto l’obbligo, per il beneficiario e per l’appaltatore, di applicare ai propri dipendenti condizioni economiche e normative non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi.

Ed anche la concessione di altri benefici è stata subordinata alla condizione che l’impresa applichi i contratti collettivi o trattamenti non inferiori a quelli da essi previsti. Inoltre, è stato introdotto l’obbligo che i “contribuiti di previdenza e di assistenza sociale” siano calcolati e versati sulla base di una retribuzione minima imponibile che non può essere “inferiore” a quella stabilita dalla legge e dalla contrattazione collettiva, ponendo interamente a carico del datore di lavoro la contribuzione relativa all’eventuale differenza tra tale retribuzione minima imponibile e quella inferiore eventualmente corrisposta.

È opportuno ricordare che, con riguardo alla disciplina relativa alla fiscalizzazione degli oneri sociali, la Corte Costituzionale ne ha affermato la legittimità, ritenendo che l’applicazione delle condizioni economiche e normative non inferiori a quelle previste dal contratto collettivo non costituisca un obbligo, bensì soltanto un “onere”, nel senso che il datore di lavoro che si rifiuti di applicare quelle condizioni non compie un inadempimento contrattuale nei confronti del lavoratore, né, tantomeno, un illecito di altra natura, ma perde soltanto la possibilità di fruire dell’agevolazione costituita dalla fiscalizzazione.

 

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