Nel rapporto tra sindacato e legge, lo Statuto dei lavoratori e gli anni immediatamente successivi costituiscono un netto “spartiacque”. Se il disegno sotteso allo Statuito dei lavoratori era quello di sostenere l’azione dei sindacati maggiormente rappresentativi e il loro potere rivendicativo, l’inversione del contesto economico e i più generali mutamenti connessi alle trasformazioni della società post industriale ed ai fenomeni della globalizzazione hanno introdotto questioni del tutto nuove per l’attività di rappresentanza sindacale, che hanno contrassegnato l’evoluzione successiva sino ai giorni nostri. Anzitutto, in seguito alla grande crisi iniziata a metà degli anni settanta, è venuto modificandosi il rapporto tra legge e contrattazione collettiva.

In particolare, è accaduto che, in taluni casi, per il perseguimento di interessi pubblici preminenti, il legislatore abbia fissato dei “tetti” invalicabili dall’autonomia collettiva. In altri più frequenti casi, utilizzando la tecnica della deregolazione “controllata”, la legge ha affidato agli stessi sindacati maggiormente rappresentativi, o alle loro rappresentanze sindacali aziendali, il compito di gestire le conseguenze della crisi, individuando le ipotesi in cui al datore di lavoro è consentito applicare condizioni meno favorevoli dello standard legale, o compiere atti che incidano sfavorevolmente sui singoli rapporti di lavoro.

Inoltre, al fine di acquisire il consenso necessario per realizzare politiche pubbliche che implicano sacrifici, il Governo ha iniziato a coinvolgere le maggiori confederazioni sindacali anche nella definizione di scelte di interesse generale, dando così vita al metodo detto dalla “concertazione sociale”. Senonché, si è verificata una crisi della rappresentatività dei maggiori sindacati, ricollegabile a diverse ragioni, quali: il venir meno dell’identità socialtipica del mondo del lavoro attorno al quale le confederazioni “storiche” erano nate ed avevano sviluppato la propria azione; l’insofferenza delle categorie di lavoratori in possesso di particolari competenze nei confronti delle politiche egualitarie o solidaristiche, proprie del sindacalismo confederale; una maggiore presenza del sindacalismo autonomo e l’esplosione dei c.d. comitati di base, in grado di conquistare una particolare visibilità.

La crisi di rappresentatività, a sua volta, ha fatto sentire i suoi effetti sia sulla tenuta del sistema sindacale di fatto, sia sul modello statutario del sostegno al sindacato maggiormente rappresentativo. Rispetto ai presupposti che avevano assicurato la tenuta del sistema sindacale di fatto, da un lato, si è manifestata l’impossibilità di continuare a fare a meno della disciplina di legge prevista dall’articolo 40 della Costituzione, in quanto il sindacato confederale non è stato più in grado di continuare ad assicurare l’esercizio responsabile del diritto di sciopero nei settori nei quali maggiormente attivi erano i sindacati autonomi e i comitati di base.

D’altro lato, per quanto riguarda la contrattazione collettiva, sono emersi problemi di efficacia del tutto nuovi rispetto a quelli ai quali la legge, la dottrina e la giurisprudenza avevano in precedenza trovato soluzione. Anzitutto, una contrattazione divenuta non sempre acquisitiva, implicando scelte difficili, ha determinato casi di rottura dell’unità sindacale e la stipulazione di accordi “separati”. Inoltre, una contrattazione collettiva dai contenuti (a volte) peggiorativi, ha fatto sì che il rifiuto della sua applicazione provenisse non più da quei datori di lavoro che intendono sottrarsi agli obblighi previsti dalla disciplina sindacale, bensì da parte di lavoratori che si ritengono penalizzati dalle scelte del sindacato.

Per quanto riguarda le rappresentanze sindacali aziendali, le successive vicende hanno determinato una totale “riscrittura” dell’articolo 19 della legge 300 del 1970, ed hanno indotto le stesse confederazioni sindacali a tentare di “autoriformare” tale organismo con l’introduzione e la regolamentazione delle “rappresentanze sindacali unitarie”. Inoltre, non è stata ritenuta idonea ad assicurare l’efficacia generale dei contratti collettivi stipulati dai sindacati riconosciuti maggiormente rappresentativi neppure nei casi in cui il legislatore abbia fatto espressamente rinvio ad essi.

Tutto ciò, ha riportato al centro del dibattito sia sindacale che politico l’ipotesi di dare attuazione alla seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione o, comunque previa riforma di quest’ultimo, di dettare una disciplina speciale di legge in materia di rappresentanza sindacale e di contrattazione collettiva. Di recente, le maggiori confederazioni sindacali sono riuscite a definire una organica regolamentazione, anche se questa soffre dei limiti di efficacia propri degli atti di natura contrattuale. Il legislatore ha invece continuato, sino ad oggi, a mantenere al riguardo un atteggiamento astensionistico.

L’unico elemento di relativa novità appare il graduale abbandono del criterio della maggiore rappresentatività e il ricorso, in sua sostituzione, alla nozione di sindacato “comparativamente più rappresentativo”, utilizzata oggi sempre più spesso per individuare i soggetti legittimati a stipulare i contratti collettivi che hanno il compito di integrare o derogare la disciplina legale. Va infine aggiunto che, periodicamente, emerge una diffidenza da parte del potere pubblico nei riguardi del sindacato e della capacità di quest’ultimo di partecipare alla realizzazione degli obiettivi ritenuti di interesse generale.

E così, il legislatore ha più volte ridotto il ruolo che egli stesso aveva attribuito alla contrattazione collettiva, ad esempio in materia di autorizzazione alla stipula di contratti di lavoro flessibile. In altri casi, le disposizioni di legge, pur facendo rinvio ai contratti collettivi, prevedono che, in caso di inerzia o mancato accordo da parte delle organizzazioni sindacali, operi uno strumento alternativo o sostituivo in modo da assicurare che la legge stessa possa produrre i suoi effetti.

In linea più generale, alcune recenti riforme sono state approvate nonostante il dissenso e l’opposizione sindacale, o di alcuni dei più importanti sindacati. Per le stesse ragioni anche la concertazione sociale non è riuscita a consolidarsi come prassi stabile di governo. Appare chiaro, infatti, che il Governo fa ricorso ad essa quando ha bisogno di rafforzare il proprio consenso, o le confederazioni sindacali sono molto forti ed unite; altrimenti la concertazione è messa da parte, ed è sostituita dal ben diverso metodo del c.d. “dialogo sociale”, ridotto spesso a vuoto rito formale, mediante il quale il potere pubblico, pur impegnandosi a coinvolgere i sindacati, si riappropria interamente delle proprie competenze e delle proprie responsabilità.

 

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