In base alla disciplina previgente, secondo l’opinione dominante, il termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro era nullo. Inoltre, la giurisprudenza affermava che l’accertamento della nullità del termine comportasse non solo il ripristino del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma anche il diritto del lavoratore al risarcimento del danno.

Il danno, infine, veniva determinato tenendo conto delle retribuzioni perse nel periodo intercorso dalla data della estromissione dal lavoro alla data dell’accertamento giudiziale della nullità del termine, detraendo esclusivamente l’aliunde perceptum, ossia i redditi percepiti in quel periodo per effetto dello svolgimento di altri rapporti di lavoro, e l’aliunde percipiendum, ossia i redditi che avrebbe potuto percepire nello stesso periodo utilizzando l’ordinaria diligenza nella ricerca di altra occupazione.

Senonché, tali principi non tenevano conto di alcune peculiarità del rapporto di lavoro; e, quindi, essi risultavano di difficile ed incerta applicazione, dando luogo ad esiti a volte imprevedibili o addirittura iniqui. In particolare, risultava problematica l’esatta individuazione dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum, tenuto conto di una situazione che è caratterizzata da un elevatissimo tasso di redditi da lavoro “sommerso”, e nella quale anche l’inosservanza degli obblighi legali di “attivazione” del lavoratore in cerca di occupazione rimaneva priva di sanzione.

Inoltre, l’applicazione di quei principi aveva dato luogo ad una prassi poco edificante di differire l’instaurazione del giudizio al fine di incrementare la quantificazione del danno derivante dall’accertamento della nullità del termine. Il legislatore è, quindi, intervenuto sia prevedendo un termine di decadenza per l’impugnazione del lavoratore, sia predeterminando l’importo minimo e massimo spettante a titolo di risarcimento del danno.

L’impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire entro 120 giorni dalla cessazione del contratto stesso. Tale termine di decadenza è più ampio di quello previsto, invece, per l’impugnazione del licenziamento e per altre fattispecie assimilate. Si è, infatti, inteso concedere al lavoratore un periodo congruamente più lungo di quello stabilito come “intervallo” minimo tra due contratti a termine successivi, consentendogli così di decidere se impugnare o no il precedente contratto già cessato soltanto dopo aver potuto verificare se si è realizzata o no la possibilità di una nuova assunzione a termine.

Trova applicazione, per il resto, la disciplina dell’impugnazione del licenziamento, e, quindi, entro 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale, il lavoratore deve proporre l’azione giudiziale o, in alternativa, la richiesta di conciliazione ed arbitrato. Il risarcimento spettante al lavoratore, invece, nel caso di trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, è stabilito dal giudice in una indennità la cui misura è “compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”.

Tale indennità è onnicomprensiva e ristora ogni pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze derivanti dalla perdita della contribuzione che avrebbe potuto maturare ove il rapporto di lavoro non si fosse interrotto a causa della scadenza del termine illegittimamente apposto. Inoltre, il limite massimo di tale indennità è ridotto alla metà (e, quindi, è pari a 6 mesi dell’ultima retribuzione) nel caso in cui siano stipulati contratti collettivi “che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratti a termine nell’ambito di specifiche graduatorie”.

È da dire che la previsione di un limite massimo al risarcimento spettante aveva suscitato sia dubbi di legittimità costituzionale che di compatibilità con l’ordinamento comunitario. Per quanto riguarda i primi, la Corte Costituzionale li ha ritenuti non fondati, in quanto ha ravvisato, nella scelta del legislatore, “ragioni di utilità generale” riconducibili “alla avvertita esigenza di una tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi, anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente”.

Per quanto riguarda i dubbi relativi alla coerenza con la disciplina comunitaria, anche essi non sono condivisibili. È vero che la “discrezionalità” lasciata agli Stati membri nella definizione delle sanzioni volte a prevenire l’utilizzazione abusiva di contratti di lavoro a tempo determinato successivi “non è illimitata, poiché non può in alcun caso arrivare a pregiudicare lo scopo o l’effettività dell’accordo quadro”.

Ma la stessa Corte di giustizia ha evidenziato che la sanzione della trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato è, di per sé, la misura più idonea a realizzare lo scopo della direttiva, che è quello di “evitare la precarizzazione della situazione dei lavoratori dipendenti” e, quindi, di prevenire in modo effettivo l’utilizzazione abusiva di contratti di lavoro a tempo determinato successivi.

La disciplina nazionale risulta pienamente conformata all’esigenza di contrastare la “precarizzazione” dei rapporti di lavoro derivante dall’abuso nell’utilizzazione di contratti a termine, in quanto essa: da un lato, prevede la “sanzione più incisiva che l’ordinamento possa predisporre a tutela del posto di lavoro” (ossia la “trasformazione del rapporto lavorativo da tempo determinato a tempo indeterminato”; d’altro lato, in aggiunta a tale sanzione, riconosce al lavoratore anche una tutela di tipo risarcitorio, costituita da “una indennità di ammontare certo” e di per sé non sproporzionato, se si tiene conto dei tempi abbreviati entro i quali il nuovo regime dei termini di decadenza impone l’avvio dell’azione di accertamento della nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro.

 

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