Il recesso nel rapporto di lavoro: i reali interessi in gioco
Il recesso costituisce un atto o negozio unilaterale e recettizio (1324 c.c.), in quanto espressione della volontà di una sola delle parti e diretto produrre effetti nella sfera giuridica dell’altra.
L’ordinamento permette a ciascun contraente di determinare la durata del rapporto ed inoltre riconosce la possibilità di recedere dal contratto, mediante preavviso (c.d. recesso ad nutum), anche contro la volontà dell’altra parte. A tale recesso ordinario si sostituisce il recesso straordinario, senza preavviso e con effetto immediato, solo in casi di anomalie funzionali del rapporto, come per esempio l’inadempimento di un’obbligazione sinallagmatica. Queste regole rispecchiano un’astratta posizione di parità.
Nel contratto di lavoro, tuttavia, occorre distinguere, in relazione agli interessi tutelati, tra il recesso del datore (licenziamento: espressione di interessi patrimoniali e dunque della libertà di iniziativa) e del lavoratore (dimissioni: di libertà morale). La corretta individuazione degli interessi in gioco consente di comprendere come la scelta dei codici borghesi (prima della redazione della Costituzione) in direzione dell’eguale ampiezza dei due poteri, sia espressione dell’astratto principio liberale della perfetta eguaglianza giuridica tra i contraenti, ma soprattutto la politica che dava il più ampio spazio all’iniziativa economica. Ciò spiega come, dopo l’emanazione della Costituzione, la condizione di contraente debole e di cittadino sottoprotetto del prestatore ha indotto il legislatore a limitare i poteri del datore e a sottoporre il recesso di quest’ultimo a limiti di carattere formale e sostanziale.
Il recesso ad nutum e l’obbligo del preavviso
Il Codice Civile prevede il principio della libera recedibilità (ad nutum) di entrambe le parti con l’obbligo il preavviso, nella misura stabilita dalla contrattazione collettiva (art.2118), senza essere tenute ad alcuna giustificazione. In caso contrario, il recedente è tenuto a corrispondere un’indennità risarcitoria detta, appunto, “indennità di mancato preavviso”.
Una questione che divide la dottrina è quella della natura reale o obbligatoria del preavviso. Appare più coerente con la ratio della norma (la tutela della prosecuzione del rapporto di lavoro) l’adempimento specifico dell’obbligo del preavviso piuttosto che il pagamento dell’indennità.
Il recesso per giusta causa
L’art. 2119 c.c. prevede che il recesso di entrambi i contraenti dal contratto di lavoro possa essere immediato, qualora si verifichi una “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (c.d. recesso per giusta causa).
Tale causa esonera dal preavviso. Qualora, però, si accerti che la siffatta causa non sussista, il recedente dovrà rispondere per il mancato preavviso. In caso di dimissioni per giusta causa al lavoratore spetta l’indennità di mancato preavviso.