Per far emergere anche attività lavorative occasionali, svolte solitamente nella più assoluta informalità, è stata dettata una disciplina molto semplificata per le cd. “prestazioni di lavoro accessorio”. Disciplina che prevede che il lavoratore venga retribuito esclusivamente mediante la corresponsione di “buoni” il cui valore è comprensivo dei contributi previdenziali. Dopo ripetuti interventi, il decreto legislativo 81 del 2015 ha ora ridefinito il campo di applicazione dell’istituto, stabilendo che le prestazioni di lavoro accessorio non possono dare luogo a compensi che superino l’importo complessivo di settemila euro nel corso di un anno civile, annualmente rivalutati, “con riferimento alla totalità dei committenti”.
Sono, poi, aggiunte ulteriori restrizioni nel caso in cui il committente sia un imprenditore commerciale o un professionista (i quali non possono erogare compensi per un importo superiore a duemila euro l’anno), nonché in relazione alle attività agricole. Nel caso di percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito, il limite complessivo è di tremila euro l’anno, anche esso rivalutabile. Di contro, il ricorso al lavoro accessorio è vietato nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi, fatte salve specifiche ipotesi individuate con decreto ministeriale.
Per evitare comportamenti elusivi, i “carnet di buoni”, acquistati telematicamente dal committente imprenditore o professionista, devono essere “orari, numerati progressivamente e datati”, ed il loro valore nominale è fissato con decreto ministeriale. I committenti imprenditori o professionisti, inoltre, sono tenuti a comunicare preventivamente alla direzione territoriale del lavoro, mediante modalità telematiche, l’inizio della prestazione di lavoro accessorio, indicando il luogo ove questa sarà svolta “con riferimento ad un arco temporale non superiore ai trenta giorni successivi”.
È stato obiettato, nei confronti del lavoro accessorio, che esso possa comportare un impegno lavorativo così ridotto da offendere la dignità del lavoratore e da produrre effetti negativi anche sul piano macroeconomico. Si deve replicare ricordando che l’eliminazione delle opportunità di svolgere lavori che non siano a tempo pieno ed ininterrotto non comporta l’aumento dell’occupazione “standard”, ma la perdita di quelle opportunità, con la conseguente, e certamente degradante, totale inattività del lavoratore.