L’evoluzione della disciplina legislativa a partire dal codice civile

Nel contratto di lavoro a tempo determinato l’esigenza dell’utilizzazione flessibile del lavoro viene soddisfatta mediante un termine finale alla durata del contratto: tale durata è prefissata dalla volontà dei contraenti ed il rapporto cessa senza dichiarazione di recesso unilaterale.

Il legislatore del Codice civile, pensando che il ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato fosse in contrasto con l’interesse alla continuità del lavoratore, aveva voluto limitare l’autonomia negoziale delle parti in materia. Considerandolo come negozio potenzialmente fraudolento, con l’art. 2097 c.c. aveva stabilito che “si deve reputare a tempo indeterminato se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto”.

La scarsa efficacia della disposizione codicistica aveva indotto il legislatore ad intervenire con la L. 18 aprile 1962, n. 230, la quale aveva abrogato l’art. 2097 c.c. e aveva dettato in sua sostituzione una normativa inderogabile ed analitica, fondata sul principio di tassatività prevedendo un apposito sistema sanzionatorio.  Essa prevedeva il contratto a tempo determinato solo come eccezione alla regola generale della durata a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro, ammesso solo in rari casi espressamente  individuati e relative a situazioni occasionali e straordinarie delle imprese o a specifici settori produttivi (spettacoli o programmi radiotelevisivi o trasporto aereo e servizi aeroportuali). Inoltre trovava applicabilità nei contratti di lavoro periodici di fronte ad intensificazione dell’attività lavorativa (c.d. punte stagionali)..

La L. n. 230, modificata e integrata da successivi interventi legislativi, è risultata una normativa complessa e talvolta di non facile lettura, fino alla sua abrogazione intervenuta per effetto del D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368.

Importa segnalare come l’evoluzione legislativa abbia dimostrato il mutare atteggiamento verso questo tipo di contratto da parte del legislatore. Dall’originario sfavore del legislatore verso i rapporti di lavoro temporanei, si è passati alla liberalizzazione controllata del contratto di lavoro a tempo determinato, di cui la riforma del decreto 368 del 2001 (emanato in attuazione della Direttiva 28 giugno 1999, n. 99/70) rappresenta l’evoluzione.

 

La Direttiva europea sul rapporto di lavoro a tempo determinato e la nuova disciplina introdotta dal D. Lgs. n. 368 del 2001. I requisiti per l’apposizione del termine: le ragioni oggettive; forma e onere di prova

Come già detto, l’attuazione della Direttiva 28 giugno 1999, n. 99/70 è avvenuta con l’emanazione del D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, con il quale il legislatore ha provveduto ad una riforma dell’istituto del contratto di lavoro a tempo determinato, nella speranza di incrementare l’occupazione mediante una organizzazione più flessibile del lavoro.

La nuova legge si pone quale fonte esclusiva della disciplina dell’intera materia. La principale innovazione è costituita dall’abbandono del principio di tassatività nella definizione delle fattispecie giustificatrici dell’apposizione di un termine alla durata del contratto. Il nuovo art. 1, co. 1°, stabilisce che l’apposizione del termine è consentita “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” ( e non più, quindi, solo in rarissimi casi, peraltro ben specificati).

Anche se non è stato riaffermato il principio di eccezionalità l’enunciazione legislativa ha valenza permissiva nei confronti dell’autonomia contrattuale.

La nuova disciplina ha notevolmente ampliato la possibilità di assumere lavoratori a termine, svincolandola dai requisiti restrittivi della straordinarietà, occasionalità, eccezionalità, senza tuttavia eliminare i limiti posti all’autonomia privata. Infatti resta vincolata all’esistenza obiettiva di una causa giustificatrice della temporaneità del rapporto. Sul datore incombe l’onere della prova di tale causa o ragione giustificatrice.

Si ha dunque una forte estensione del potere regolamentare dell’autonomia individuale e del controllo del giudice.

Strettamente collegata è la disposizione che vincola l’apposizione del termine al requisito dell’atto scritto. Tale forma è prescritta a pena di inefficacia e deve indicare la scadenza del termine e le ragioni giustificatrici della sua apposizione: in questo modo l’atto scritto (che deve essere consegnato al lavoratore entro 5 giorni lavorativi dall’inizio della prestazione) assicura la trasparenza o la veridicità della c.d. causale ed allo stesso tempo l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto.

Va notato che l’assenza o incompletezza della scrittura importa l’inefficacia della clausola oppositiva del termine e non la nullità del contratto che, pertanto, si considera a tempo indeterminato.

Stessa conclusione per l’ipotesi di insussistenza, o non corrispondenza rispetto allo schema legale: anche in questo la nullità non si comunica al contratto medesimo. Si può aggiungere che, avendo la norma dell’art. 1, co. 1°, la sua violazione importa la nullità e la cosiddetta conversione in contratto a tempo indeterminato. Ne consegue che il lavoratore potrà agire in giudizio senza limiti di tempo per l’accertamento di tale nullità, perché la relativa azione non è soggetta a decadenza ed è imprescrittibile.

 

Divieti; esclusioni; discipline speciali

L’apposizione del termine è vietata e dunque il contratto si considera a tempo indeterminato, in taluni casi tassativamente previsti dalla legge:

sostituzione di lavoratori in sciopero;

salva diversa disposizione di accordi sindacali, nelle unità produttive in cui siano state effettuate procedure di licenziamento collettivo;

nelle unità produttive interessate da riduzioni di orario o sospensioni di lavoro con diritto al trattamento d’integrazione salariale, per i lavoratori adibiti alle medesime mansioni cui si riferisce il contratto a termine;

nelle imprese che siano inadempienti agli obblighi relativi alla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro.

In questi casi il legislatore ha valutato immeritevole di tutela l’interesse del datore all’apposizione del termine. Inoltre la legge ha stabilito l’esclusione dal proprio campo di applicazione di particolari rapporti e settori produttivi, oppure ha previsto discipline speciali in tutto o in parte derogatrici di quella generale. Ciò è da dire per rapporti a carattere temporaneo, già destinatari di una propria disciplina:

contratto per prestazioni di lavoro temporaneo;

contratto di formazione e lavoro;

contratto di apprendistato.

Sono inoltre esclusi, in quanto destinatari di una disciplina speciale, il rapporto di lavoro degli operai a tempo determinato nell’agricoltura, i rapporti a termine instaurati con le aziende esercenti il commercio di esportazione, importazione e all’ingrosso dei prodotti ortofrutticoli ed infine i rapporti cosiddetti a giornata nei settori del turismo e dei pubblici esercizi.

Tra le discipline speciali oltre a quella per il settore del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali vi è quella relativa ai dirigenti, che vieta la stipulazione di contratti a termine per un periodo di tempo superiore a cinque anni. Inoltre, per i dirigenti, l’apposizione del termine è libera e non necessita della forma scritta e non vi sono limiti alla proroga ed ai rinnovi del contratto. La ratio di questa disciplina si può ravvisare nell’interesse delle imprese alla flessibilità delle prestazioni dirigenziali e nella possibilità di opportunità di nuova occupazione da parte del dirigente.

 

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